“Dove ho sbagliato?”, il dramma del padre di Laura uccisa da una Freccia Tricolore. Sotto inchiesta il pilota

Sarà un risveglio graduale quello del fratello di Laura Origliasso, 12 anni, fatto con il costante supporto degli psicologi. I medici che da ieri lo assistono in terapia intensiva al Regina Margherita hanno iniziato stamattina a sospendere la sedazione. Da stamattina con lui c’è il papà Paolo, 49 anni. È stato dimesso in mattinata dal Cto e, subito, accompagnato dai carabinieri ha raggiunto il Regina Margherita.

Il dramma del padre

“Dove ho sbagliato? Non sono riuscito a salvare la mia bambina, cosa avrei potuto fare di diverso?”, si chiede e lo ripete da stanotte quando per centinaia di volte ha ripercorso la drammatica scena di San Francesco al Campo quando la macchina ha preso fuoco dopo lo schianto di una Freccia Tricolore subito dopo il decollo e la sua bambina di 5 anni è rimasta intrappolata nell’abitacolo. “Le condizioni cliniche sono buone, è stato attivato subito il soccorso psicologico”, spiega Maurizio Berardino, direttore dell’anestesia e rianimazione della città della salute. “La mamma resterà ricoverata ancora qualche giorno – spiegano i medici – sotto l’osservazione dei chirurghi plastici”.

Le condizioni dei feriti

Il fratello di Laura ha trascorso una notte tranquilla. Ha ustioni su l quasi il 30% del corpo. Il Direttore generale Giovanni La Valle, nel ringraziare “tutti i professionisti che hanno affrontato con immediatezza una situazione così complessa anche per l’impatto emozionale legato alla particolare situazione, si stringe con affetto alla famiglia in questo momento di grande dolore”. Ieri sera è stato dimesso il maggiore Oscar Del Do, il pilota Pony 4 alla guida dell’Aermacchi precipitato ed è stato subito sentito in procura.

Aperto un fascicolo di indagine

Intanto è iniziato il lavoro degli investigatori che hanno iniziato un nuovo sopralluogo a Caselle e San Francesco al campo nell’area dell’incidente, che hanno lavorato fino a tarda notte e stamattina hanno ripreso molto presto i rilievi e la raccolta dei reperti. La procura di Ivrea ha aperto un fascicolo per disastro aereo e omicidio colposo. Le indagini dovranno accertare le cause dello schianto e stabile se a provocarlo è stato uno stormo di uccelli, come ipotizzato in un primo momento. Importante per le indagini la consulenza tecnica sugli strumenti di bordo a cominciare dalla scatola nera, dove sono registrate le conversazioni tra il pilota, il maggiore Oscar Del Do, dimesso ieri sera dall’ospedale San Giovanni Bosco, e gli altri componenti della pattuglia.

Sotto inchiesta il pilota

Il faro della magistratura è puntato proprio sul pilota. “L’iscrizione del pilota nel registro degli indagati di solito è un atto dovuto della magistratura. Non è ancora stato ufficialmente notificato ma è probabile che in giornata possa succedere”, ha spiegato il generale Luigi Del Bene, comandante delle forze di combattimento di Milano, che ha incontrato stamattina a Torino Oscar Del Do. “Si trova complessivamente in un buono stato fisico ma moralmente è particolarmente provato per la fatalità”, ha detto il generale.

L’iscrizione nel registro degli indagati è un atto a tutela del militare, che potrà così nominare un difensore in vista degli accertamenti tecnici irripetibili che dovranno essere eseguiti nelle prossime ore. Intanto l’aeronautica militare ha avviato accertamenti paralleli a quelli della procura, “a supporto del lavoro della magistratura”. Del Bene ha incontrato anche i genitori della piccola Laura. “A loro tutto il nostro cordoglio”, dice il generale. 

Fino a mezzanotte chiuso l’aeroporto

Per permettere rilievi e sopralluoghi l’aeroporto di Caselle resterà chiuso fino alla mezzanotte di oggi. La notte scorsa chi si è presentato in aeroporto perché doveva partire ma ha trovato l’attività aeroportuale è stato assistito anche con taxi e hotel messi a disposizione dei passeggeri, la Polaria e la guardia di finanza. Questa mattina hanno monitorato la situazione ma non si sono verificati particolari criticità. Un centinaio di persone si è presentato allo scalo.

Frecce Tricolori, la disperazione del padre: “Laura bloccata nell’auto in fiamme non sono riuscito a tirarla fuori”

SAN FRANCESCO AL CAMPO – Per una bambina di cinque anni, nel cielo ci sono le nuvole e i palloncini, il sole, a volte la pioggia che viene giù e fa il solletico alla faccia. Ci sono gli uccellini, gli aquiloni e gli aeroplani. Mai il fuoco, cosa c’entra il fuoco in cielo? Anche per Laura doveva essere così, seduta nel suo seggiolino in auto. E adesso resta la speranza che quel fuoco lei non l’abbia nemmeno visto arrivare e non abbia sentito il rumore fortissimo, come di un mondo in mille pezzi.

Stavano tutti tornando a casa in macchina. Laura era abituata agli aerei, e anche suo fratello Andrea. Anche la mamma Veronica, anche il papà Paolo. Perché la famiglia abita a duecento metri dall’aeroporto, in un paese che prende il nome da un santo e da un campo. Infatti di campi è pieno l’orizzonte, prati e alberi, querce, gaggie, cespugli enormi, rami con foglie verdi o già un po’ rosse in questa estate che sta finendo. Gli aerei che partono e arrivano, sempre, non c’è da averne paura. Laura abitava lì da poco, anche questo è un destino della famiglia Origliasso, 49 anni il papà, 41 la mamma, 12 il ragazzino più grande che è in seconda media, appena 5 anni Laura che andava alla scuola dell’infanzia. Il loro cielo era stretto e lungo come le scie bianche sopra la pista di Caselle, a volte da lassù scende una strana puzza di benzina. Sullo sfondo, non tanto lontano, si vede un campanile. E c’è un palazzotto giallo che sembra un piccolo castello in mezzo a un prato, e una ciminiera di mattoni rossi.

Forse è stato uno stormo di uccelli, forse uno di loro è entrato nel motore. E adesso che è quasi sera e sta per calare il buio, ali scure a piccoli gruppi di tre, di cinque tagliano l’orizzonte. Il suono delle sirene, le luci dei lampeggianti, e Laura che non c’è più.

È stata come un’onda di fuoco. Prima lo spostamento d’aria che fa rovesciare la macchina, poi le fiamme che l’avvolgono. Papà, mamma e Andrea riescono a scappare dalle lamiere, Laura resta intrappolata. Il papà prova a tirarla fuori con le mani, ora è questa la sua ustione più grave, grida di aiutarlo, urla disperato che non ce la fa. Da quella trappola non si esce, impossibile sciogliere il nodo. Lo ha ripetuto disperato ai soccorritori. Il corpo della bambina sarà estratto soltanto molto tardi dai vigili del fuoco.

Non erano andati a vedere gli aerei, non erano lì in attesa delle famose Frecce Tricolori, vanto dell’Aeronautica Italiana. Quelle che il 28 agosto 1988 andarono a sbattere una contro l’altra nel cielo tedesco di Ramstein: settanta morti, quella volta. Ma Laura, Andrea, Paolo e Veronica stavano solo tornando a casa, non erano lì per curiosare a bordo strada o per divertirsi nella vertigine del rombo che si gonfia e precipita dentro le orecchie. Stavano lì per caso, alla fine di una giornata semplice, un sabato come tanti, di quelli che si va a trovare i nonni e poi si passa dal supermercato per un po’ di spesa.

L’appuntamento con il cielo in fiamme non l’aveva fissato nessuno. Un po’ come quel giorno di ottobre del 1996, quando un cargo russo andò a schiantarsi sulle case dopo un atterraggio troppo lungo: due morti e tredici feriti. Anche lì, la spaventosa lotteria di chi abita a pochi passi da un aeroporto: quando va bene, frastuono e gasolio e un po’ di spavento per i tuoni dei motori, quando va male si può anche morire.

Laura era così piccola, curiosa di tutto. All’asilo la ricordano sempre allegra e gentile. Spezza il cuore saperla dentro un’auto rovesciata, la carcassa accanto a quella dell’aereo senza il muso, qualche pezzo è finito anche sopra gli alberi ed è stato bravo il pilota, un ragazzo, Oscar Del Dò il suo nome, a evitare case e cascine precipitando. Non poteva sapere che due automobili stavano passando in quel momento sulla strada che dalla rotonda di San Francesco al Campo, appena dopo l’aeroporto di Caselle, piega verso i campi accostando la pista. Il cartello con il nome del paese, le lamiere carbonizzate a parte la coda dell’aeroplano, blu, e nell’aria odore di bruciato, di campagna e di pioggia. La prima auto la scampa, la seconda muore.

Laura è perduta, la famiglia in qualche modo si salverà. Si salveranno i tre corpi dei sopravvissuti, dicono i medici, ma il resto sarà un inferno identico alle fiamme che hanno resistito a lungo, sollevando un fumo nerissimo. La famiglia l’hanno riunita alla fine della giornata all’ospedale Regina Margherita, dove il piccolo Andrea è in rianimazione ma la sua vita non è in pericolo. «Ho sentito un rumore enorme», ha ripetuto Paolo Origliasso, il padre, a tutti. Le ustioni sulla pelle non sono niente in confronto alle altre piaghe, dentro. La sua bambina, il cielo di fuoco. E adesso, andare avanti.

Frecce Tricolori, il canto del cigno per l’Aermacchi MB339

L’incidente di Torino potrebbe segnare il canto del cigno per l’Aermacchi MB339 A, l’aereo delle Frecce Tricolori. Le prime immagini sembrano indicare un problema al motore, che ha obbligato il pilota a uscire dalla formazione e poi a lanciarsi con il seggiolino eiettabile. In una manovra a quota così bassa non ci sono alternative.

L’Aermacchi, azienda oggi confluita in Leonardo, è in servizio con le Frecce da quarant’anni esatti: l’adozione risale al 1982. I tecnici della Pattuglia sono maestri nel garantirne l’efficienza, gestendo una manutenzione minuziosa. Ma il peso dell’età rende controlli e riparazioni sempre più lunghi. Il propulsore Rolls Royce Viper è stato progettato nel 1953 e ogni componente viene costruito con metodi quasi artigianali. D’altronde questa versione non è più in linea né con la nostra Aeronautica, né con quelle di altre nazioni, fatta eccezione per la pattuglia acrobatica emiratina “gemella” delle Frecce. Soltanto pochi mezzi della successiva serie CD vengono utilizzati per la formazione degli allievi.

È un aereo con una robustezza e un’agilità leggendaria. All’inizio alcuni piloti hanno rimpianto lo scatto del Fiat G91, un mezzo da combattimento mentre l’MB nasce per l’addestramento e quindi ha velocità e accelerazione meno significativi. Da ricordare però che alcuni MB339 argentini hanno partecipato al conflitto delle Falkland del 1981 e anche questo fa capire quanto sia vecchio.

Nella sua lunga carriera non ha mai avuto problemi particolari: il terribile incidente di Ramstein del 1988 con i velivoli caduti tra il pubblico in Germania causando settanta morti, è stato attribuito a un errore umano, una ricostruzione che molti continuano a contestare. Da allora i voli sono stati impeccabili, ripetuti in migliaia di esibizioni.

Il successore è già stato scelto: il Leonardo M345, ultima evoluzione di un modello della storica Siai, che dispone di strumentazioni digitali e un motore hi-tech. Il taglio dei fondi per la Difesa ne ha fatto rinviare l’acquisto, deciso nel 2017, e poi rallentare gli ordini. I primi tre sono arrivati nel 2020. Attualmente non ne sono stati consegnati ancora un numero sufficiente per iniziare il passaggio della Pattuglia sul nuovo velivolo, cosa che comunque dovrebbe avvenire entro un anno.

L’epiteto “gobbi” assegnato ai bianconeri? E’ stato inventato nel 1957 durante la sfida all’Olimpico con i laziali

Chi la vuole omaggiare la chiama “la vecchia signora”, e la Juve incarna bene il fascino compassato e antico di nobildonne d’altri tempi. Chi invece si riferisce ai giocatori juventini con volontà da presa in giro, tira fuori l’epiteto “gobbi”. Che larga fortuna ha avuto nei decenni soprattutto tra le tifoserie avverse ai bianconeri grazie ad una partita proprio con la Lazio. Quella biancoceleste è infatti una delle squadre con cui la Juve ha giocato più spesso a settembre (dieci partite di cui ben 6 di serie A). E negli anni passati il mese con cui inizia l’autunno coincideva con le prime partite “vere”, Coppa Italia, amichevoli o campionato che fosse. Pertanto era pure l’occasione di vestire per la prima volta le maglie da indossare per l’intera stagione.

Dunque, primo settembre 1957, stadio Olimpico: amichevole della Juve del serbo Brocic in preparazione del campionato che sarebbe iniziato una settimana più tardi e che avrebbe consegnato ai bianconeri la prima stella. Di per sé il match non è memorabile con il successo juventino per 4-2 con le reti di Sivori, Charles e la doppietta di Nicolè. La tradizione (e qui si entra nel campo della leggenda) vuole però che in quel pomeriggio romano di fronte a cinquantamila spettatori la Juve abbia usato per la prima volta una maglia larga che permetteva all’aria di entrare sotto il tessuto creando, mentre i giocatori correvano, un rigonfiamento sulla schiena da cui il termine “gobbi” che, sempre secondo la vulgata, venne coniato dai tifosi del Toro e poi si diffuse tra gli altri supporters.

Il Piemonte sosterrà le spese di rimpatrio di Elisa De Marco, alessandrina morta in Giappone

Prima c’è stata una raccolta fondi spontanea avviata nell’Alessandrino, ora anche la Regione conferma il suo impegno per sostenere i costi di rimpatrio del feretro di Elisa De Marco, morta nei giorni scorsi nel suo appartamento non lontano da Tokyo, stroncata probabilmente da un malore. “Aiuteremo la famiglia De Marco a riportare a casa la salma della povera Elisa”, l’annuncio del presidente del Consiglio regionale del Piemonte, Stefano Allasia.

La giovane aveva 27 anni, la sua famiglia vive a Pontecurone, lei aveva abitato a Tortona, aveva lavorato da Bulgari a Valenza, studiava lingue e si era trasferita in Giappone da poco. Si manteneva gli studi lavorando. Era stata trovata morta la mattina del 7 settembre dopo che la famiglia da Pontecurone aveva contattato l’ambasciata e la polizia nipponica. “Non risponde ai messaggi da giorni ed è strano perché ci sentiamo ogni giorno”, avevano spiegato papà Angelo e mamma Letizia, che per un po’ avevano provato a chiamarla e a scriverle fino a quando anche le spunte dei messaggi whatsapp hanno smesso di comparire perché il cellulare di Elisa si era scaricato.

“È successo qualcosa di grave”, assicuravano i genitori che hanno presentato una denuncia anche ai carabinieri insieme alla mail mandata all’ambasciata. La tragica risposta delle autorità giapponesi è arrivata poche ore dopo: Elisa era in casa, senza vita. Nessun segno di effrazione, nessun elemento anomalo in casa, nessun segno di violenza sul corpo. Subito dopo quella dolorosa notizia la famiglia si è dovuta occupare degli aspetti più pratici: il riconoscimento del corpo, avvenuto tramite o tatuaggi della ragazza, poi il rimpatrio, un costo esoso, altissimo per la famiglia della ragazza. Il papà Angelo lavora in un’azienda di logistica a Rivalta Scrivia, è rimasto invalido dopo essersi ferito a un occhio. Servono 15 mila euro per far seppellire Elisa a Tortona. Nei giorni scorsi nell’Alessandrino era stata lanciata una raccolta fondi ma ora la Regione ha deciso di pagare quella spesa. Lo ha annunciato Stefano Allasia. “Siamo riusciti tutti insieme – racconta – e grazie anche agli uffici, ieri in conferenza capigruppo e questa mattina in prima e terza commissione congiunta, ad arrivare velocemente ad una integrazione normativa al disegno di legge della giunta che permetterà alla Regione di coprire le spese di rimpatrio del corpo di Elisa. Non potevamo restare indifferenti di fronte alla disperazione e al dolore di una famiglia che ha perso la propria figlia e che non è nelle condizioni di sostenere questi costi”.

“Speriamo che non serva più ricorrere a questa legge per casi simili così tristi – precisa il presidente del consiglio regionale – ma ci dovessero essere in futuro situazioni di criticità di altri nostri corregionali che vivono e si trovano all’estero, e che evidenziano caratteri di urgenza ed eccezionalità, potremo intervenire in modo veloce e puntuale per correre in loro aiuto”. L’assessora Vittoria Poggio ha aggiunto: “La sempre più significativa mobilità verso altri Paesi per motivi di studio e di lavoro aumenta la possibilità che i cittadini piemontesi all’estero si trovino in situazioni critiche, non prevedibili, e quindi non affrontabili con gli strumenti ordinari disciplinati dalla legge. Si è ritenuto perciò necessario introdurre uno strumento legislativo che permetta alla Giunta di intervenire in maniera straordinaria”.

Brandizzo, via all’esame della scatola nera. C’è il sospetto che la scena sia stata alterata dopo l’incidente

Nuovi interrogatori, acquisizioni di altri documenti, controlli su cosa sia successo subito dopo il disastro sui binari, incarichi peritali per far luce sulla strage di Brandizzo e accertare ulteriori responsabilità. La procura di Ivrea riparte oggi con una serie di attività per chiarire tutti gli errori commessi in un sistema, quello della manutenzione dei binari, che appare inficiato dalla fretta e da troppe pressioni a discapito della sicurezza. La chiave della strage di Brandizzo ruota intorno allo scellerato “via libera” dato dalla scorta di Rfi Antonio Massa e dal caposquadra di Si.gi.fer Andrea Girardin Gibin (indagati con l’accusa di disastro e di omicidio con dolo eventuale) a iniziare i lavori senza avere ancora l’interruzione della linea sul binario 1.

Gli inquirenti stanno quindi ricostruendo la dinamica. La sera del 30 agosto per tre volte la dirigente movimentazione avrebbe detto al referente di Rfi sul posto di non iniziare i lavori perché la linea, su quel binario, non era ancora stata interrotta. Un convoglio era transitato alle 23 e 44: questo potrebbe aver generato confusione per Massa, che potrebbe aver pensato fosse l’ultimo treno.

L’indagine si allarga però anche ai minuti subito dopo il disastro: qualcuno avrebbe attivato un dispositivo di sicurezza sulla linea, chiamato “d.o.b”, che prima dell’impatto non c’era, modificando così la scena dell’incidente. La spiegazione potrebbe essere che sia stato posizionato come strumento ulteriore di garanzia (era previsto ancora il passaggio di un treno all’1 e mezza di notte) seppure la circolazione fosse ormai chiaramente interrotta. Simulando il passaggio di un treno, il d.o.b fa scattare il semaforo rosso. E i macchinisti hanno sempre detto che era verde e di non aver avuto indicazione che dovessero esserci dei lavori su quel binario.

Per avere la certezza delle comunicazioni scambiate con il convoglio, oggi in procura sarà conferito l’incarico a un perito di estrarre le memorie dei tablet in uso ai due conducenti. Saranno esaminati anche due “registratori degli eventi di marcia e di condotta”, una sorta di “scatola nera” del convoglio. Ma si tenterà anche di estrapolare informazioni utili dai cellulari di due vittime, che, seppur parzialmente distrutti, erano stati trovati sul posto. L’accertamento è un atto irripetibile che è stato notificato venerdì mattina ai due indagati. Se la tesi della prassi di mettersi all’opera sui binari fosse confermata, gli indagati potrebbero aumentare.

Il fischio del treno e poi una lunga e stridula frenata: le immagini dell’incidente di Brandizzo da una telecamera

Il fischio del treno segna il momento della tragedia, poi la disperata frenata e il suono stridulo delle rotaie che si trascinano per almeno mezzo minuto.

Trenta secondi per arrestare la corsa a oltre 100 chilometri orari del convoglio che, alle 23.47 di mercoledì scorso, è appena piombato e ha travolto i cinque operai al lavoro per rimpolpare la massicciata. A circa trecento metri dal luogo dell’impatto, una telecamera di sicurezza riprende i treni che sfrecciano alla stazione di Brandizzo: il filmato ottenuto da Repubblica riprende quindi proprio il convoglio merci della strage. Si vede passare anche quello immediatamente precedente, solo quattro minuti prima. E’ un treno in ritardo. La squadra di operai è già pronta a rimettersi di nuovo al lavoro sui binari. Nonostante la linea non sia ancora stata interrotta, e l’autorizzazione formale a procedere non sia quindi mai arrivata.

Il passaggio del convoglio potrebbe aver creato confusione ad Antonio Massa, il tecnico referente di Rfi che subito prima aveva saputo dalla dirigente movimentazione di dover attendere il passaggio di mezzi che non erano in orario e che sarebbero ancora dovuti transitare. E’ stato lui però, secondo quanto emerso dalle indagini, a dare il via libera ai lavori sui binari, violando così la procedura di sicurezza.

E il sospetto degli inquirenti è che tutto ciò sia avvenuto per la fretta di iniziare i lavori e l’abitudine a cominciarli senza rispettare la procedura. Perché tanto, nel caso fosse arrivato un treno, “vi faccio un fischio e voi vi spostate”, come ha poi anche detto il tecnico agli operai, ritenendo forse, quella sera, di non dover più aspettare un altro passaggio.

“I treni passano di qua, alle 11.50 c’è l’ultimo” lo si sente infatti avvertire nel filmato choc che era stato girato da Kevin Laganà, la più giovane delle vittime, subito prima di morire. “Io guardo il segnale, appena vi dico “oh”, voi uscite da quella parte” aveva detto alle vittime, dando il via ai lavori che invece non avrebbero dovuto e potuto cominciare.

Subito prima della tragedia Massa, che è indagato insieme al caposquadra della ditta appaltatrice dei lavori Andrea Girardin Gibin per omicidio con dolo eventuale, era al telefono proprio con la dirigente movimentazione: lui l’aveva avvisata del passaggio del treno e quindi poteva arrivare l’interruzione della linea.

Lei a quel punto gli avrebbe detto di aspettare perché doveva verificare se fosse davvero così. Non c’è stato il tempo. In diretta aveva sentito il treno schiantarsi sugli operai. E quando lo aveva richiamato, si era sentita dire: “Sono tutti morti”.

Strage del treno, la verità della teste chiave: “Per tre volte dissi: non potete iniziare i lavori”

IVREA — “Gli ho detto di no per tre volte. Di non iniziare i lavori, perché non c’erano le condizioni per dare il via libera”. Dopo una giornata in procura, la testimone chiave dell’inchiesta sulla strage di Brandizzo esce stravolta quasi alle 8 di sera. Testa bassa, sguardo sfuggente per sfuggire alle telecamere, affretta il passo, sotto braccio alla mamma che l’ha attesa per tutto il giorno all’esterno del palazzo di giustizia di Ivrea.

Ha solo 25 anni, la funzionaria dell’ufficio movimento di Rfi che la notte del 30 agosto dalla sala di controllo della stazione di Chivasso comunicò – vietandogli di fare iniziare i lavori sui binari per tre volte – con Antonio Massa, la scorta di Rfi che avrebbe violato ogni regola di sicurezza dicendo alla squadra di operai della Sigifer: “Ok, iniziate pure”. Non c’era alcuna autorizzazione scritta. Ma non solo. Ci sarebbe stato un divieto esplicito, ribadito dalla “dm”, in gergo dirigente movimento di Rfi, per ben tre volte. E ieri ai pm l’ha ribadito. “Sono fiera di come ha gestito la situazione” dice la madre.

Era stata assunta da poco, in Rfi, la 25enne: due anni ad Alessandria, poi Chivasso. E quella sera, senza esitare, avrebbe detto “no”. “Aspettate, deve passare un treno, è in ritardo. Aggiorniamoci dopo, vi do io il via libera” è stato l’alt che la tecnica, nella prima chiamata con Massa tra le 23.26 e le 23.29, avrebbe impartito a Massa. Altri due “no” relativi all’avvio delle operazioni sono ribaditi nella seconda e terza telefonata tra le 23.30 e le 23.55, orario della strage. Eppure gli operai sono già all’opera. La funzionaria, da Chivasso, non può saperlo, mentre comunica con la “scorta”, ma le immagini delle telecamere della stazione di Brandizzo sono chiare.

Kevin Laganà, Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Saverio Giuseppe Lombardo e Giuseppe Aversa sono da tempo sui binari. Piegati in avanti, ad allentare i pezzi di un troncone lungo non meno di sette metri. Si sentono, i rumori degli attrezzi di lavoro . Eppure continua, come se fosse una farsa, la “trattativa” avviata da Massa con l’addetta di Rfi. Lui pressa per avere l’autorizzazione. Che non arriva. E quando Andrea Gibin, il capo squadra della Sigifer, gli chiede: “Possiamo iniziare?”, Massa risponde: “Andate pure”. Una prassi rafforzata nelle audizioni anche ieri, quando sono stati sentiti altri quattro dipendenti Sigifer e un capostazione.

[[(Video) Chi sono i morti di Brandizzo: le due generazioni arrivate dal Sud che il destino riunisce sullo stesso binario]]

“Sono disperato per questa tragedia”, dichiara Gibin che da giorni non esce di casa, stravolto dal dolore della perdita dei suoi compagni. “Non posso che esprimere la mia vicinanza alle famiglie dei miei amici e compagni di lavoro”. Gibin ha nominato come avvocato di fiducia Massimo Mussato: “Ho assunto la difesa da poche ore. È necessario anteporre il rispetto per le famiglie delle persone decedute”. A Gibin vengono contestati, come a Massa, il disastro ferroviario e gli omicidi plurimi con l’ipotesi del dolo eventuale.

Giorgio Airaudo sull’incidente ferroviario di Brandizzo: “Non esistono errori umani è colpa di una catena di fragilità”

«Scendiamo in piazza per dire “Basta, ma sarà un marcia silenziosa. Siamo in lutto, non può essere un corteo tradizionale». Giorgio Airaudo, segretario generale della Cgil in Piemonte, è il primo, subito dopo la terribile notizia della morte di cinque operai a Brandizzo, ad aver parlato di una nuova Thyssen.

Airaudo, un corteo a Vercelli, ma sapendo bene che l’eco della manifestazione arriverà ben più lontano dei confini del Piemonte. Immagina una grande partecipazione?

«È la strage che è un fatto nazionale. Non so valutare quanto ampia sarà la partecipazione ma mi ha colpito che mi chiamasse un gruppo di ferrovieri lombardi in pensione per dirmi che volevano essere presenti. Trovo importante che unitariamente i sindacati abbiano voluto dare una risposta nel luogo che sta subendo il fortissimo dolore per queste morti che erano assolutamente evitabili. La Regione Piemonte è la terza in Italia dopo Lombardia e Veneto per incidenti sul lavoro. Sono numeri importanti».

Troppo tragedie sul lavoro in Piemonte. Perché ?

«Non le chiamerei tragedie, sono stragi. Tre in quindici anni. Dopo la Thyssen, il Molino Cordero dove hanno perso la vita cinque operai nel 2013. Ora Brandizzo. Poi i morti della gru in via Nizza».

Non si fa altro che parlare di digitale e poi si compilano moduli, si fanno telefonate, si comunica con fonogrammi. Non sembra folle tutto ciò? Chi è lontano da quel mondo neppure riesce a immaginare che sia cosi.

«C’è un tema forte che non può non emergere. Anche la sicurezza purtroppo finisce per essere condizionata dalle diseguaglianze. La digitalizzazione e la vigilanza ci sono sull’alta velocità, ma per i treni dei pendolari e degli studenti siamo indietro di anni. La stessa Rfi ammette che il 40% della rete tradizionale è obsoleta».

Non pensa però che esistano gli errori umani? E che anche quelli possano avere conseguenze gravissime?

«Gli errori umani negli incidenti sul lavoro non esistono. Non si può non vedere che le imprese hanno processi decisionali che non consentono di evitare quegli errori. Le ditte hanno il mandato di lavorare più velocemente, vengono penalizzate di quattromila euro per ogni minuto di ritardo. In questo modo si innesca una catena di fragilità tale per cui l’impresa chiede tempi rapidi, il lavoratore che aspetta di essere stabilizzato ha paura di non esserlo se l’impresa deve pagare penali. Ci sono decine di contratti diversi, una giungla, anche di salari. Molti di questi lavoratori che fanno manutenzione hanno contratti per edili, altri per metalmeccanici. Purtroppo paghiamo anni di innamoramento per la flessibilità. Si è preferito investire sulla svalutazione dei lavoratori piuttosto che sull’innovazione».

Cosa si aspettano i sindacati dalla manifestazione di domani?

«Che Rfi apra un ragionamento sulla manutenzione e sul sistema perverso dei subappalti».

La Cgil ha presentato ad Alberto Cirio un dossier di esposti sulla sicurezza sul lavoro. Avete avuto riscontri?

«Ci sono stati controlli. Non abbiamo ancora riscontri però dall’Asl di Torino. Altrove sono state trovate irregolarità anche importanti. All’Ilva di Novi ligure, ad esempio, un carro-ponte che trasporta acciaio non aveva più i freni. Possiamo facilmente immaginare quali avrebbero potuto essere le conseguenze».

L’inchiesta è in corso, saranno tempi lunghi, lo strazio dei familiari non avrà pace per anni. Ora un’infinità di parole. Poi?

«Ha ragione Raffaele Guariniello. Serve una Procura nazionale sul lavoro. La Procura di Ivrea dovrà documentarsi, chiedere consulenze tecniche, ci vuole tempo. Con una Procura nazionale i tempi della giustizia sarebbero molto più rapidi».

“Fermi, devono passare altri due treni”: le telefonate ignorate dall’addetto Rfi

Ivrea — Tre telefonate in 26 minuti. L’ordine di «non procedere con i lavori» ribadito in due conversazioni che si susseguono. E poi lo schianto in diretta telefonica. I rumori di sottofondo, durante la terza chiamata, che ricordano quelli di una bomba.

Sono racchiusi in cinque registrazioni — di altrettante comunicazioni — gli elementi di prova più importanti che la procura di Ivrea ha acquisito prima di consegnare, nelle scorse ore, gli avvisi di garanzia ai primi due indagati (Andrea Gibin, caposquadra di Si.gi.fer e Antonio Massa, tecnico di Rfi) della strage di Brandizzo. Rispondono entrambi, per la morte dei cinque operai avvenuta la notte del 30 agosto, di omicidio plurimo e disastro ferroviario con dolo eventuale.

Secondo la squadra di investigatori — Polfer e Guardia di finanza — coordinata dalla procuratrice Gabriella Viglione, si starebbe delineando in modo sempre più netto uno dei punti chiave dell’indagine. «Gli operai non dovevano stare su quel binario, a quell’ora», continuano a ripetere dal terzo piano del palazzo di giustizia. Non sarebbe esistita alcuna autorizzazione scritta per potere intervenire. Ma non solo. Dalle ultime telefonate registrate, emergerebbero dettagli più significativi. Massa, che aveva il ruolo di “scorta” (il tecnico di Rfi che accompagna la squadra di operai sui binari) avrebbe autorizzato verbalmente il “via” alle operazioni sul binario della morte senza avere ottenuto alcun via libera — nemmeno oralmente — dalla sala di controllo della stazione di Chivasso, dove la tecnica di Rfi (non indagata e sentita come testimone) per due volte, al telefono, gli aveva “vietato” di dare l’ok per iniziare i lavori.

La prima telefonata avviene tra le 23.26 e le 23.29. «Possiamo cominciare?» chiede Massa alla tecnica di Chivasso, che risponde: «State fermi. Deve ancora passare un treno, che è in ritardo. Aggiorniamoci dopo».

Ma nessuno sarebbe stato fermo. Gli operai a Brandizzo ricevono l’ok (orale) dai loro superiori e iniziano a operare sui binari. Dai filmati delle telecamere della stazione di Brandizzo e dai rumori di sottofondo che si sentono nella seconda telefonata (poco dopo le 23.30) si vedono e sentono i cinque operai spingere, con attrezzi rumorosi, sul binario.

«Adesso possiamo andare?», chiede, in questa seconda chiamata, Massa all’addetta di Chivasso. E lei per la seconda volta risponde “no”, ribadendo un concetto già espresso nella comunicazione precedente: «Bisogna aspettare dopo la mezzanotte. Ci sono due fasce orarie possibili in cui lavorare dopo quell’ora, o prima o dopo l’una e mezza, ora in cui passerà un altro treno. Scegliete voi quale preferite». Gli operai sono sempre sul binario. La terza telefonata, brevissima, è quella della strage. Avviene in diretta. Si sente un’esplosione. Massa e l’addetta di Chivasso in silenzio. Cade la linea. Le due telefonate successive, sono strazianti. «Sono morti tutti! Sono morti tutti sui binari!», urla Massa, in lacrime. Ancora urla e dolore. E poi il nulla. I corpi di Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Saverio Giuseppe Lombardo, Giuseppe Aversa e Kevin Laganà sono senza vita, lontani, lungo due chilometri di binario.

«Quando è successo tutto ero al telefono con la collega di Rfi, stavo compilando i documenti», ha spiegato Massa, sentito subito dopo la strage come persona informata sui fatti. Gli interrogatori non sono ancora iniziati. Ma al di là delle singole posizioni da valutare, c’è altro. Dopo i blitz della finanza alla Si.gi.fer (la ditta di Borgo Vercelli in cui lavoravano le vittime) e negli uffici di Rfi, gli inquirenti cercano elementi di prova per dimostrare che la “prassi” di iniziare i lavori prima del rilascio dell’autorizzazione scritta non sarebbe stata, in generale, infrequente. Se la tesi verrà provata, rischieranno di essere indagate anche Rfi e Si.gi.fer come società.

Intanto, mentre i familiari delle vittime si preparano a costituirsi parti offese (come lo zio e il padre di Laganà), viene chiesta loro pazienza, dalla procura, per i tempi dei funerali. Non saranno imminenti: l’identificazione dei resti dei corpi e le analisi dei Dna richiedono tempo. I familiari hanno chiesto di vederli, quei resti. Sono stati, finora, dissuasi: la scena sarebbe troppo straziante per essere tollerata.

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