18 miliardi di utili “prigionieri” in Russia: la risposta alle sanzioni colpisce l’Occidente

Le aziende occidentali ancora attive in Russia e appartenenti ai Paesi considerati “ostili” dal Cremlino dopo lo scoppio della guerra in Ucraina hanno riportato oltre il 90% del totale degli utili realizzati da imprese straniere nel Paese, ma queste risorse non possono essere riportate in Europa e in Nord America per via delle controsanzioni di Mosca.

Lo riporta il Financial Times sottolineando in un’inchiesta i dati elaborati dalla Kyiv School of Economics: le aziende occidentali hanno generato 18 miliardi di dollari di profitti in Russia nel 2022 e i principali settori di attività ove permangono interessi dei Paesi ritenuti ostili da Mosca sono stati i beni di consumo, i servizi finanziari e l’energia. Le aziende che non si sono ritirate dalla Russia o hanno visto i loro beni svalutati o espropriati, nota il Ft, vedono i loro risultati economici “prigionieri” delle mosse di Mosca.

Gli utili locali delle aziende in questione sono stati bloccati in Russia dall’imposizione, lo scorso anno, del divieto di pagamento dei dividendi alle imprese provenienti da paesi “ostili”. Questa misura ha avuto un impatto significativo sulle aziende occidentali, che hanno visto i loro profitti e il valore delle loro attività in Russia diminuire. La situazione ha creato un dilemma per le aziende occidentali che operano in Russia. Molte hanno cercato di vendere le loro attività, ma qualsiasi accordo richiede l’approvazione di Mosca ed è soggetto a forti sconti sui prezzi. Operare sul posto significa continuare a produrre per il Paese di Vladimir Putin e la sua “economia di guerra”. Ma anche evitare crolli di valore immobilizzato e giri d’affari che si rischia di perdere forse per sempre.

Alcune società, come British American Tobacco, Enel, Ford, Renault, McDonald’s, Ikea, Shell Heineken e Volvo, hanno annunciato accordi per trasferire le loro attività nel paese a proprietari locali o hanno lasciato direttamente il Paese. Un gruppo di ricerca dell’Università di Yale conta in oltre mille unità le aziende che hanno totalmente deciso di lasciare la Russia.

Altre, come nota il Ft, non hanno voluto perdere il business: “Tra le società di origine “ostile” che rimangono attive in Russia, la banca austriaca Raiffeisen ha riportato i maggiori utili del paese nel 2022, pari a 2 miliardi di dollari, secondo i dati della Kse. I gruppi statunitensi Philip Morris e PepsiCo hanno guadagnato rispettivamente 775 e 718 milioni di dollari. I profitti russi di 621 milioni di dollari del produttore di camion svedese Scania nel 2022 lo hanno reso il produttore di autocarri più redditizio tra le aziende che da allora si sono ritirate dal paese”. I quattro gruppi assommano 4,1 miliardi di dollari di utili, poco meno del 23% del totale dei Paesi “ostili”. Molte aziende hanno poi sospeso le attività o ridotto gli investimenti, ma rimangono attive. Ad esempio, per l’Italia Confindustria Russia segnala che solo il 10% degli operatori italiani attivi nel Paese prima dell’invasione dell’Ucraina ha cessato le attività.

Certamente, però, il congelamento dei dividendi crea un grave problema alle aziende occidentali. In primo luogo, blocca il consolidamento dei bilanci e il trasferimento delle risorse per aumentare gli utili complessivi. In secondo luogo, misure del genere contribuiscono a un vero e proprio incentivo alla pressione sulle imprese perché difendano la loro presenza nel Paese mantenendo viva la minaccia di esproprio e, al contempo, incentivando investimenti produttivi che, chiaramente, contribuiscono al benessere della Federazione Russa. Terzo, e decisivo, punto: tenere sotto scacco gli utili occidentali in Russia evita che Ue, Regno Unito, Canada, Usa e alleati spingano sul sequestro definitivo delle riserve russe bloccate all’estero, che più di un osservatore propone di destinare all’Ucraina per la ricostruzione.

Contribuendo nel frattempo a difendere il cambio del rublo, in profonda sofferenza. La conseguenza? 100 miliardi di euro di svalutazione dei capitali delle aziende europee investiti in Russia da un lato, un blocco ulteriore della scarsa fiducia reciproca tra Mosca e l’Occidente dall’altro. Sono i rivoli della guerra economica che continua, passo dopo passo. Di recente si è aggiunta la rottura russa degli accordi sulla doppia tassazione. Un passo dopo l’altro l’integrazione russo-occidentale frana. E manca totalmente la volontà politica di sistemare una macchina a lungo proficua per tutti, prima di esser travolta dall’ineluttabilità delle rivalità geopolitiche.

Ecco perché il pilota potrebbe essere indagato

Sarà iscritto nel registro degli indagati della Procura di Ivrea il pilota delle Frecce Tricolori che, sabato scorso, si è schiantato a San Francesco al Campo provocando la morte di una bimba di 5 anni. Il passaggio è infatti imposto dalla procedura perché è necessario disporre una serie di accertamenti tecnici irripetibili. L’atto non comporta accuse specifiche o attribuzioni di responsabilità. La procura di Ivrea ha infatti aperto un fascicolo per disastro e omicidio colposo. Intanto sono proseguiti fino a domenica i rilievi dei carabinieri del comando provinciale. Era presente anche il procuratore capo di Ivrea, Gabriella Viglione. Le indagini dovranno accertare le cause dello schianto e stabile se a provocarlo è stato uno stormo di uccelli, come ipotizzato in un primo momento. Importante per le indagini la consulenza tecnica sugli strumenti di bordo a cominciare dalla scatola nera, dove sono registrate le conversazioni tra il pilota, il maggiore Oscar Del Do, dimesso dall’ospedale San Giovanni Bosco, e gli altri componenti della pattuglia.

Chi è il maggiore col sogno da sempre di volare

Il maggiore Oscar Del Do’, di 35 anni, di Torreano di Martignacco (Udine), non lontano dalla base aerea di Rivolto, era entrato nelle Frecce tricolori il 19 dicembre 2019, faceva il terzo gregario sinistro (pony 7). Lo ricorda il Messaggero Veneto, sottolineando che per Del Do’ era il sogno della sua vita, “ci aveva creduto da sempre”. Il debutto ufficiale ci sarebbe stato nell’estate 2020, al termine della fase di addestramento. Oggi Del Do’ è il secondo gregario sinistro della formazione (Pony 4); è un pilota esperto, con oltre 2000 ore di attività alle spalle e proviene dal 132/o Gruppo del 51° Stormo di Istrana. Il Messaggero Veneto ha rintracciato anche il professore Mauro Fasano, coordinatore della sezione aeronautica dell’istituto udinese Malignani, insegnante della futura Freccia. Lo ricorda come “un ragazzo in gamba, serio, preparato, preciso e molto meticoloso” che “si era impegnato tanto per riuscire a realizzare il suo sogno di entrare nelle Frecce”. Sostiene che, da quanto ha visto dal video dello schianto, “Oscar ha cercato in tutti i modi di tenere in assetto l’aereo riuscendo a eseguire la manovra di eiezione poco prima dell’impatto. Ha fatto quello che doveva essere fatto e nel modo migliore”.

Enac. 2.186 casi di impatti con animali nel 2022

Gli impatti di aerei con animali selvatici, in maggior parte uccelli, ma anche mammiferi, sono stati 2.168 nel 2022, in gran parte nelle aree aeroportuali sotto i 300 piedi di altezza. In 1917 casi non ci sono state conseguenze specifiche mentre sono 40 gli impatti con danni, 121 quelli multipli e 103 quelli con ‘indigestione’, cioè con un animale finito nei motori. Sono questi i dati dell’ultima relazione annuale dell’Enac sui ‘Wildlife Strike’. Il rapporto ricco di dati, indica procedure e rimedi attuati con informazioni sui singoli aeroporti. A Caselle, interessato ieri dall’incidente con la caduta di una delle Frecce Tricolori nel 2017 su 42.641 ‘movimenti’ sono stati registrati 17 impatti, un numero limitato anche se in crescita sui 10 del 2021 e sui 13 del 2020. Si tratta di impatti con uccelli. Sull’aeroporto – emerge dal rapporto – sono state adottate pratiche specifiche e sistemi di dissuasione, come l’utilizzo di auto con sirena bitonale, ma anche 22 falconidi addestrati, stabili nell’aeroporto, e due cani di razza border collie impiegati per allontanare la fauna selvatica in genere.

Il papà della vittima: cosa potevo fare?

“Il papà ha ripercorso molte volte ciò che è successo chiedendosi cosa poteva fare di diverso”. Così in ambienti medici hanno parlato di Paolo Origliasso, il padre di Laura, la bimba di cinque anni morta nello schianto di un veicolo delle Frecce Tricolori a San Francesco al Campo (Torino), portato all’ospedale Cto di Torino per le ustioni riportate nell’incidente. L’uomo è stato dimesso domenica. La moglie resterà invece ancora al Cto perché le ustioni che ha riportato (in prevalenza al braccio destro) sono più estese e con ogni probabilità richiederanno un intervento di chirurgia plastica. “In casi come questi – ha osservato Maurizio Berardino, capo dipartimento anestesia e rianimazione della Città della Salute – è necessario verificare che non ci siano lesioni più subdole, meno evidenti. Ma gli accertamenti sono stati tranquillizzanti”. Il fratello dodicenne ricoverato anche lui al Regina Margherita di Torino, è sveglio, anche se mantenuto ancora con un bassissimo livello di sedazione. Gli vengono medicate costantemente le ustioni sul 30% del suo corpo. È in buone condizioni generali ed è seguito dalle psicologhe cliniche. Per ora resta ricoverato nel reparto di Rianimazione.

Il momento di preghiera domenica sera

Di Laura ricordo che era una bambina gioiosa, piena di vita, che sapeva stare con gli altri. Oggi ci troviamo con gli insegnanti per capire come fare con gli altri bambini a livello psicologico e di accompagnamento delle famiglie. Dovremo improvvisare ma cercheremo di fare le cose nel miglior modo possibile”. Lo ha detto Alessio Toniolo, parroco della chiesa ‘San Francesco d’Assisi’, a San Francesco al Campo (Torino) dove domenica sera c’è stato un momento di raccogliemtno e preghiera per la bimba morta e il dolore della famiglia. “Un po’ di persone hanno desiderato incontrarsi per pregare per questa bambina. La famiglia è molto conosciuta. Cercheremo di starle vicino. La comunità e le persone coinvolte hanno bisogno di stare insieme”.

L’ombra della guerra del fentanyl: perché negli Usa si parla di attaccare il Messico

”È tempo che l’America dichiari guerra ai cartelli”. Donald Trump non ha dubbi, gli Usa devono entrare con l’esercito in Messico. Ron DeSantis, governatore della Florida, ha detto che quando sarà eletto come presidente il primo giorno di incarico lancerà una campagna a base di droni e forze speciali oltre il confine per stanare i cartelli del narcotraffico. Tutto il campo repubblicano è in fermento, tutti si dicono pronti ad aprire un fronte con il vicino del sud per fermare l’epidemia di oppioidi che flagella intere comunità americane.

Il Gop si prepara alla stagione delle primarie e uno dei temi più caldi per molti elettori dell’America profonda è quello delle overdose da fentanyl che stanno distruggendo intere generazioni di giovani statunitensi. L’oppioide sintetico responsabile di gran parte delle morti nelle strade Usa arriva dal vicino Messico, dai laboratori creati dai cartelli messicani grazie anche alle materie prime che fluiscono nel Paese dalla Cina.

L’idea di molti candidati del Gop è quella di un approccio muscolare sul fronte dell’offerta. Per l’ex presidente, ad esempio, è necessario un pacchetto di provvedimenti molto forte, che comprende un embargo navale, l’inserimento dei cartelli messicani nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, l’uso di attacchi cyber, ma anche l’impiego di forze speciali e operazioni sotto copertura. DeSantis, l’avversario di Trump, ha strutturato ancora di più il suo pensiero. Per il governatore è necessario rispolverare la dottrina Monroe, l’assunto elaborato nel 1823 secondo cui le potenze straniere devono rispettare la potenza americana in tutto il Nuovo Mondo, da Nord a Sud.

DeSantis ha parlato dello schieramento di una forza speciale che individui e elimini i trafficanti. L’ultra trumpiano Vivek Ramaswamy, che sta emergendo in queste primarie, ha parlato apertamente del dispiegamento di un dispositivo simile a quello impiegato dagli Usa per fronteggiare le minacce terroristiche in Medio Oriente. Lo stesso Trump ha detto che serve una campagna simile a quella che nel 2017 ha preso piede contro l’Isis, Ramaswamy ha citato invece le operazioni speciali che hanno portato alla morte di Osama Bin Laden nel 2012 e del generale iraniano Qasem Soleimani nel gennaio del 2020.

Il regno dei cartelli del fentanyl

La proposta repubblicana ha sollevato questioni e polemiche, ma per capirla bisogna avere una vaga idea di come funziona l’industria dei narcos che porta il fentanyl nelle strade americane. Il primo punto da cui partire riguarda le tempistiche. Nell’ultimo decennio il fentnayl è diventato la prima causa di morte tra gli americani, questa evoluzione è andata di pari passo con il cambiamento dell’offerta di droga dall’America centrale. Il Messico si è adattato abbastanza velocemente dalla produzione di stupefacenti di origine naturale a quelli sintetici e nel giro di qualche anno ha visto nascere una fiorente industria dell’illecito con minor manodopera, minori costi, e guadagni elevati.

Secondo uno studio della Rand Coporation il fentanyl prodotto per coprire l’intera domanda annuale negli Stati Uniti è pari a 5 tonnellate di prodotto, una quantità facilmente stipabile in pochi convogli. Per fare un paragone basti pensare che la domanda di eroina corrisponde a 125 tonnellate. Questo vuol dire che la produzione non richiede strutture di stoccaggio, si basa su una logistica snella e poche persone coinvolte.

La filiera coinvolge in prima istanza i porti da cui entrano le materie prime. In arrivo soprattutto dalla Cina, queste confluiscono poi nelle regioni settentrionali del Paese dove vengono processate e pressate in pillole. A differenza della produzione di droghe naturali che richiedono capi di papaveri o canapa, il fentanyl viene prodotto in laboratori molto piccoli, che si possono allestire velocemente in case, garage e scantinati, facili da nascondere anche in molte aree urbane. Secondo le stime degli esperti i “cuochi” di fentanyl nel Paese sono un centinaio. Secondo Peter Reuter, docente di politiche pubbliche alla University of Maryland sentito dal Financial Times, molti di questi “cuochi” sono chimici esperti.

La droga verso nord

Una volta sintetizzate le pastiglie viaggiano verso Nord, oltre il confine. I passaggi vengono gestiti da “muli”, quasi tutti con cittadinanza statunitense, molte le donne. Entrano spesso in modo legale nel Paese, molti meno sono gli ingressi dai valichi di frontiera più trafficati o dal deserto.

Questo sistema si regge poi su una rete di relazioni informali. Negli ultimi anni i narcos controllano vaste porzioni del territorio messicano, sono radicati nelle comunità e non si occupano solo di produzione di pasticche. Le loro organizzazioni hanno diversificato le attività, si occupano di estorsioni, gestione delle risorse naturali, traffico di esseri umani. Ma non solo. Hanno anche legami con la politica messicana e le forze di sicurezza regolari del Paese. Si tratta di gruppi capaci di spostare voti e data la grande quantità di denaro riescono a finanziare campagne elettorali.

Limiti dell’intervento armato

Tutti questi fattori rendono qualsiasi intervento molto complicato. Sul piano pratico i laboratori sono difficili da individuare. A differenza dei centri di produzione delle metanfetamine non emettono né tracce di calore, né fumi maleodoranti. Il legame intrecciato con le comunità rende molto difficile districare le attività dei narcos da quelle dei cittadini e dei politici.

Lo strapotere dei cartelli, ottenuto anche grazie alla vasta domanda di fentanyl, ha avuto conseguenze sul piano interno. Da un lato la riduzione della forza lavoro nel mercato informale degli stupefacenti ha ingrossato le fila dei messicani disoccupati, dall’altro ha fatto aumentare di nuovo la violenza con un record di omicidi e sequestri tra il 2018 e 2020. Non solo. Anche il fronte di chi gestisce questo indotto è frastagliato. Oggi il fentanyl è la ragione principale degli scontri tra due dei cartelli più importanti, quello di Sinaloa (cartello nel quale militava anche Ovidio Guzman, uno dei figli di Joaquin “El Chapo” Guzman) e il cartello Jalisco New Generation Cartel (CJNG).

Negli ultimi anni le autorità messicane hanno provato a fare qualcosa sotto le pressioni di Washington. I sequestri sono aumentati in modo considerevole, ma pochissimi laboratori sono stati individuati e chiusi. Uno dei problemi è che il Messico è uno dei Paesi che spende meno in materia di sicurezza, solo l’1% del suo Pil. Le forze di sicurezza hanno poca discrezionalità investigativa e il sistema giudiziario è farraginoso.

I rischi di una guerra col Messico

La strategia di molti repubblicani è quindi quella di aggredire le catene del valore che portano la droga verso l’America. In primo luogo cercando un sistema per bloccare le forniture di materie base per la produzione delle pasticche che partono dalla Cina e finiscono in Messico; poi facendo pressioni sul Messico. Il presidente Lopez Obrador ha respinto molte accuse al mittente parlando di un problema dettato dalla domanda.

Molti esperti sono scettici su eventuali colpi di mano militari verso sud. Città del Messico è uno dei principali partner commerciali e soprattutto svolte un ruolo delicato nei flussi di migranti che dal Sud-Centro America puntano verso gli Usa. Non solo. L’esercito del Messico non vede di buon occhio la cooperazione con quello americano. Nonostante siano passati 175 anni dalla guerra tra i due Paesi che consegnò vaste fette di nord America a Washington, le forze armate messicane rimangono diffidenti.

Il deputato repubblicano del Texas (Stato che passò con gli Usa proprio dopo il conflitto con il Messico) ha proposto più volte di elaborare con il Messico un dispositivo simile a quello adottato con la Colombia per combattere i narcos che rifornivano le strade americane di cocaina. In una lunga analisi Foreign Policy ha smontato pezzo per pezzo la proposta: sia perché ci si trova di fonte a scenari strategici diversi, sia perché quell’esperienza insegnò che colpire la produzione di droga, per farne aumentare il costo, e quindi ridurre domanda e consumo, era una strategia fallimentare. Un avvertimento che molti, nel campo repubblicano, dovrebbero tenere a mente nel caso di un conflitto aperto con i vicini del Sud.

Alzheimer, la salute dei mitocondri del cervello è una chiave per la prevenzione

Sono le centrali elettriche della cellula e sono cruciali per la conservazione della memoria e dei ricordi: parliamo dei mitocondri, gli organelli che producono l’energia necessaria alle cellule per tutte le funzioni vitali. Nella ricerca scientifica sta emergendo che potrebbero essere attori chiave nella lotta contro l’Alzheimer poiché i mitocondri danneggiati sono collegati alla progressione della malattia mentre i mitocondri sani rappresenterebbero la chiave per evitare il declino cognitivo.

Una terapia per l’Alzheimer ancora non c’è

La via per mantenere i mitocondri sani è anche quella che previene i tumori e le malattie cardiache o una serie di altre malattie legate all’età: esercizio fisico e . Può certamente sembrare scontato e anche noioso, ma è proprio così. La prevenzione testa ancora la strada principale per limitare il rischio di andare incontro a malattie neurodegenerative. A oggi infatti non esiste ancora una cura davvero efficace contro l’Alzhiemer, nonostante le decine di anni passati per trovare una terapia e 3,7 miliardi di dollari spesi solo negli Stati Uniti. Gli obiettivi della ricerca finora hanno preso di mira l’amiloide, una proteina che si accumula nel cervello formando le tipiche placche, segno distintivo della malattia degenerativa. I dati dei farmaci come Lecanebab (unico ad aver ottenuto la piena approvazione da parte della Food and drug Administration) , Aducanumab e Donanemab indicati per contrastare il declino cognitivo all’inizio della malattia sono incoraggianti. Le placche amiloidi calano, tuttavia i risultati sembrano essere di scarsa rilevanza dal punto di vista clinico, ovvero i pazienti a livello pratico non notano benefici. Inoltre questo genere di terapie comporta notevoli rischi per la sicurezza: nel corso dei trials sono stati registrati casi di emorragia cerebrale, che in alcuni casi è stata fatale. Risultati promettenti sono stati pubblicati anche su una possibile terapia genica contro l’Alzheimer in grado di abbassare la proteina tau, nota anche questa per essere una delle cause della malattia. Molti scienziati sospettano che placche e grovigli di beta amiloide non siano la causa dell’Alzheimer, ma semplicemente un sintomo a valle. Ciò che sta a monte è la salute mitocondriale. E mantenere i mitocondri sani potrebbe davvero essere una strada che vale la pena percorrere.

Quando i mitocondri funzionano male

I mitocondri, conosciuti appunto come «centrale elettrica» del cervello, trasformano il cibo in energia. Tra i loro compiti anche quello di immagazzinare calcio e distruggere le cellule che non funzionano bene e generano calore. Quando i mitocondri si indeboliscono producono meno ATP (una molecola che rappresenta la principale forma di accumulo di energia immediatamente disponibile), gestiscono male la concentrazione di ioni calcio e non si rigenerano in modo efficace. Dal momento che il nostro cervello, quando è surriscaldato, è a corto di mitocondri e assorbe un quinto delle nostre calorie totali e dell’ossigeno, risulta particolarmente sensibile al danno ossidativo. Per mantenersi in perfetta forma ed efficiente, il cervello ha bisogno dei mitocondri. La disfunzione mitocondriale è legata all’invecchiamento e al morbo di Alzheimer e si verifica anche prima che compaiano i sintomi clinici. Studi recenti suggeriscono anche un legame tra i mitocondri che funzionano in modo anomalo e la sovrabbondanza di proteina tau.

Che cosa succede al cervello con l’esercizio fisico

L’esercizio fisico può essere una delle chiavi per mantenere sani i mitocondri. L’allenamento di resistenza migliora l’attività mitocondriale e, nei topi, è stato dimostrato che protegge dall’atrofia cerebrale. Negli studi condotti su pazienti affetti da Alzheimer, l’esercizio fisico ha aumentato il flusso di sangue al cervello, ha ispessito l’ippocampo, ha favorito la crescita di nuovi neuroni e ha migliorato le prestazioni cognitive. Si è visto invece che uno stile di vita sedentario aumenta l’infiammazione del cervello, l’accumulo di radicali liberi dell’ossigeno e riduce l’attività mitocondriale. «La scarsa funzionalità mitocondriale – concorda Gianfranco Beltrami, vice presidente della Federazione Medico Sportiva Italiana – potrebbe in effetti essere la causa che determina l’accumulo di amiloide . Che i mitocondri debbano restare il più possibile sani e in forma e che l’esercizio fisico aiuti in questo è senz’altro corretto».

I meccanismi di prevenzione dell’Alzheimer

Sono diversi i meccanismi che comunque concorrono nella prevenzione dell’Alzheimer con l’esercizio fisico. «L’attività fisica – spiega Beltrami – riduce insulino-resistenza che ha un ruolo importante nello sviluppo dell’Alzheimer; agevola la produzione del BDNF, una proteina che ha un effetto neuroprotettivo e favorisce la formazione di nuovi neuroni e sinapsi, aumentando le dimensioni dell’ippocampo, area fondamentale per la memoria (in tutti i soggetti con Alzheimer l’ippocampo è più piccolo); migliora inoltre la funzionalità vascolare, di cruciale importanza per la salute dei neuroni e delle sinapsi; riduce lo stress che è un fattore scatenante dell’infiammazione, causa determinante di tutte le malattie croniche degenerative fra cui l’Alzheimer. L’esercizio fisico infine favorisce il sonno, che aiuta tantissimo le funzioni cognitive perché migliora il recupero e l’umore. In sintesi l’esercizio fisico, in particolare nuoto, corsa, ciclismo, aumenta la sopravvivenza dei neuroni e ne favorisce la creazione di nuovi, contrastando l’invechiamento cerebrale: sono tutte funzioni legate ai mitocondri».

Come sapere se i nostri mitocondri sono in salute

Per conoscere la forma fisica mitocondriale il parametro migliore è misurare la massima potenza aerobica, cioé la massima quantità di ossigeno che può essere utilizzata in un certo tempo da un individuo nel corso di un’attività fisica. La potenza aerobica viene espressa come VO2 max, ovvero il massimo volume di ossigeno consumato per minuto. Essenzialmente, riflette la capacità del corpo di utilizzare l’ossigeno per la produzione di energia (sono i mitocondri a produrre energia). Sebbene una misurazione diretta del proprio VO2 max richieda un’attrezzatura speciale, la maggior parte degli orologi fitness fornisce una stima del VO2 max e i dati variano tra uomini e donne. «Misurare la massima potenza aerobica – aggiunge il medico dello sport – è un metodo utilizzato con successo anche per misurare l’età biologica della persona, che sappiamo essere spesso diversa da quella anagrafica».

La dieta antiossidante

Oltre che con l’esercizio fisico la salute mitocondriale migliora con una dieta ricca di antiossidanti con mirtilli, fagioli rossi, pomodori, spinaci, carciofi, tè verde. Anche la restrizione calorica e le diete chetogeniche (solo sotto controllo medico) possono essere protettive. Lo stress è invece un grande nemico dei mitocondri: negli studi su animali si è visto che lo stress cronico, l’ansia, l’aggressività e la paura danneggiano i mitocondri.

Sfida tra Nato e Russia tra i ghiacci dell’Artico. Mosca: “Prenderemo misure necessarie”

Per l’ambasciatore russo Nikolai Korchunov, qualsiasi misura di rafforzamento della Nato nell’area dell’Artico riceverà una risposta da parte di Mosca. Un ulteriore segnale di come anche l’Artico sia ormai a tutti gli effetti un teatro di scontro tra la Russia e l’Occidente, insieme ad altri settori del mondo. “La politica di rafforzamento del potenziale militare della Nato in questa regione, anche attraverso l’adesione della Finlandia all’alleanza e il previsto coinvolgimento della Svezia in essa, testimonia la prevalenza di scenari di potere della Nato per garantire la propria sicurezza alle latitudini settentrionali a scapito della sicurezza di altri Paesi” ha spiegato Korchunov come riportato da Ria Novosti. E questo, sempre secondo il diplomatico russo, condurrà a “una serie di misure necessarie, comprese le misure preventive” da parte della Federazione.

L’avvertimento di Korchunov sulle mosse della Russia nell’Artico arriva insieme a una serie di notizie che giungono da questo fronte “caldo” delle reazioni tra Mosca e Nato. Nelle scorso settimane, alcune immagini satellitari, rilanciate da Yle, hanno mostrato la costruzione di alcune installazioni militari russe a 50 chilometri dal confine con la Finlandia. Paese che da questa estate fa ufficialmente parte dell’Alleanza atlantica. Le basi, secondo quanto riportano gli osservatori, sono al momento utilizzata dalla Brigata artica dell’esercito della Federazione Russa.

In base alle immagini, è stato possibile identificare anche le date della costruzione dei vari capannoni, avvenuta in tre singoli giorni tra luglio e agosto. Una notizia che certifica la crescita di interesse di Mosca per il confine finlandese, in particolare per la regione della Carelia, dopo che Helsinki ha completato il procedimento di adesione alla Nato iniziato con lo scoppio della guerra in Ucraina. Una scelta in controtendenza rispetto alla neutralità attività tipica della Finlandia dalla Guerra Fredda ma che è stato il fulcro dell’agenda estera dell’ex premier Sanna Marin un volta che il presidente russo Vladimir Putin ha innescato la cosiddetta “operazione militare speciale”.

L’allarme sulla Finlandia si unisce poi ad un altro avvertimento sulla delicata situazione dell’Artico giunto dalle colonne del Financial Times. Come riportato da Repubblica, infatti, nell’ultimo mese già due navi russe sono partite dal porto di Murmask lungo le coste artiche russe per dirigersi nel porto cinese di Rizhao usando la rotta polare. Questa via d’acqua è considerata una delle grandi sfide del futuro, dal momento che l’aumento delle temperature e il parallelo miglioramento delle tecnologia per la navigazione renderebbe sempre più facile l’attraversamento di questa rotta un tempo impraticabile.

Tutto questo con la non trascurabile postilla della netta diminuzione dei tempi di percorrenza e dei costi rispetto alla rotta che transita attraverso il Canale di Suez. Il problema, spiegano gli esperti, è che al momento la Russia utilizzerebbe navi non rinforzate: fattore che rischia di provocare perdite di petrolio in caso di incidenti causati da scontri con ghiaccio più solido. L’allarme ambientale si unisce quindi a quello della sicurezza, mostrando un altro fronte di sfida tra Mosca e l’Occidente.

L’ultimo giallo su Kadyrov: “È morto”

Kadyrov è morto, questa volta però non sembra essere la solita narrazione dei suoi detrattori. La notizia è stata comunicata dal leader d’opposizione cecena Abubakar Yangulbae in serata, rilanciata dall’Ucraina, e non smentita da Mosca. Il comandante di Grozny, che due giorni fa era stato dato gravemente malato, aveva postato ieri mattina, o qualcuno per lui a questo punto, un video dove lo si vedeva in salute mentre passeggiava su una strada di campagna sotto una pioggerellina leggera. Nel filmato consigliava «a tutti coloro che non sanno distinguere la verità dalle bugie di fare una passeggiata all’aria aperta». In serata auto di grossa cilindrata con targa cecena hanno iniziato alla spicciolata a raggiungere l’ospedale militare di Mosca, dove Kadyrov sarebbe spirato per insufficienza renale, mentre elicotteri dell’esercito russo sorvolavano la zona.

Dopo Prighozin il Cremlino starebbe quindi perdendo anche il supporto del macellaio ceceno e dei suoi spietati uomini del battaglione Akhmat, e Putin è costretto a correre ai ripari per raccogliere combattenti. Potrebbe essere Kim Jong-un a fornire soldati alla Russia per sbaragliare Kiev nel Donbass. La notizia, rivelata dall’intelligence di Varsavia, è stata rilanciata da diversi media ucraini. L’accordo sarebbe stato trovato durante il summit di Vostochny e i dettagli verranno definiti a novembre a Pyongyang, nel corso di un vertice dei due ministri della Difesa. Mosca parla di «manovalanza nordcoreana», ma Putin ha bisogno di uomini oltre che di armi per portare avanti l’operazione speciale.

Per il segretario della Nato Stoltenberg non ci sarà una fine rapida della guerra (lo pensa anche il generale Milley): «avremo la pace se il presidente Putin e la Russia deporranno le armi, diversamente i combattimenti andranno avanti per parecchio tempo e il sostegno della Nato a Kiev non verrà mai meno». Più ottimista Zelensky, che ritiene non così lontani «i giorni delle nostre città in pace e in piena sicurezza». Per il ministro degli Esteri russo Lavrov il presidente ucraino «ha poco da festeggiare. L’eventuale fornitura di missili a più lunga gittata da parte dell’Occidente non cambierà l’essenza della guerra». Ma la Finlandia, attraverso la voce del presidente Niinisto, teme un’escalation pericolosa e la minaccia nucleare. Di un possibile tavolo di trattative hanno discusso ieri a Malta il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il consigliere Usa per la sicurezza nazionale Sullivan, anche se il Segretario dell’Onu Guterres non vede maturi i tempi per un «serio dialogo».

Gli sforzi della controffensiva hanno generato un blocco delle unità russe nell’area di Bakhmut, impedendo il loro trasferimento (20mila di 52mila uomini) sul fronte di Zaporizhzhia. In serata Kiev si è ripresa anche Klishchiivka, 10 km a sud di Bakhmut, mentre i russi hanno rallentato l’offensiva verso Kupyansk. Gli invasori che combattono a ridosso della Crimea stanno rafforzando le difese a Tokmok, che diventerà il pilastro della seconda linea di difesa dopo lo sfondamento di Kiev nell’area di Robotyne. Resta l’incognita delle aree minate.

Nella 571esima giornata di combattimenti droni diretti su Mosca sono stati intercettati e abbattuti nei distretti di Ramenky, Oryol (danneggiato un deposito di petrolio), Tula (colpito un centro logistico), Voronezh e Kaluga. A causa degli attacchi sono stati chiusi per alcune ore gli aeroporti di Domodedovo, Zhukovsky e Vnukovo, con la cancellazione di 37 voli.

Erdogan sfida l’Europa: “Siamo vicini a rompere”

Rischia di essere una mina sugli equilibri internazionali condizionati dal conflitto in Ucraina. La Turchia rompe il linguaggio diplomatico e avvisa Bruxelles: il Paese potrebbe «allontanarsi dall’Unione europea in maniera definitiva». È la reazione durissima del presidente turco Recep Tayyip Erdogan all’ultima relazione approvata il 13 settembre dal Parlamento Ue, che frena sul processo di adesione della Turchia all’Unione, in assenza di significativi segnali da Ankara sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici.

«L’Ue si sforza di tagliare fuori la Turchia ed è evidente. Noi faremo le nostre valutazioni e decideremo se prendere un’altra strada. Terremo la situazione sotto controllo e se sarà necessario potremo decidere di rompere le relazioni con l’Ue», ha detto ieri Erdogan alla viglia dell’assemblea generale dell’Onu a New York, dove il presidente ucraino Zelensky tenterà di allargare il fronte che appoggia Kiev ai Paesi del Sud globale più reticenti. Erdogan, invece, decide di riaprire quello ostile all’ingresso della Svezia nella Nato, che attende ancora la ratifica del Parlamento turco.

L’adesione era rimasta sospesa perché Erdogan accusava Stoccolma di proteggere i militanti del Partito curdo dei lavoratori (Pkk) rifugiati nel Paese scandinavo e considerati terroristi da Ankara. Le posizioni però si erano ammorbidite nei mesi scorsi, dopo che la Svezia, per aprire alle richieste di Erdogan, aveva rafforzato le leggi sul terrorismo e analizzato diverse istanze di estradizione. Tanto che nella sua relazione il Parlamento Ue ha anche esortato la Turchia a ratificare l’adesione alla Nato, perché questa «non può dipendere dal processo di adesione all’Ue di un altro Stato», cioè quello turco. Un doppio filo invece ben stretto da Erdogan, che ha rilanciato il veto: «La Svezia non ha rispettato gli impegni presi con la Turchia sulla lotta al terrorismo e quindi ciò che è necessario per entrare a far parte della Nato. L’Occidente continua a dire: Svezia, Svezia, Svezia. Finché il nostro Parlamento non prenderà una decisione, non possiamo dire sì o no. Prima di tutto, la Svezia deve rispettare gli obblighi. Ci dicono che hanno preparato una legge. Ma approvare una legge non basta, bisogna applicarla». A far infuriare il Sultano è stata l’ennesima manifestazione, due giorni fa, a Stoccolma, in cui attivisti hanno dato fuoco a un’immagine del presidente turco. E soprattutto il fatto che la protesta fosse autorizzata dalla polizia: «Permettere ai terroristi di manifestare è contrario ai doveri della Nato». Lo scorso gennaio era stato già convocato l’ambasciatore svedese, con l’accusa alle autorità di non fare abbastanza per impedire le manifestazioni.

Toni non concilianti verso Bruxelles erano già arrivati a stretto giro dal ministero degli Esteri turco, che aveva commentato la relazione dell’Europarlamento come «una collezione di faziosità e pregiudizi basati su disinformazione creata da circoli anti Turchia». Aveva attaccato l’Ue che «mira a portare avanti un’agenda populista che danneggia i rapporti con la Turchia in un momento in cui il dialogo è in corso». Tensioni che si riversano sugli equilibri internazionali, dove Erdogan gioca il ruolo di interlocutore di peso nell’ambito del conflitto in Ucraina. Oggi all’assemblea Onu incontrerà il segretario generale, Antonio Guterres, per agevolare l’iniziativa sul transito del grano nel Mar Nero.

Saltano in aria camion pieni di russi. Cosa ha fatto l’esercito ucraino

Non solo combattimenti tra le trincee e tra le varie linee di difesa dei russi nel sud e nell’est dell’Ucraina. Nel Paese la guerra sta infuriando anche nelle retrovie, tra sabotaggi e azioni da parte di gruppi di “partigiani ucraini”. Si tratta di sigle impegnate nelle aree occupate dai russi nei primi mesi di conflitto, con l’intento di attaccare le forze avversarie stanziate soprattutto tra la Crimea e Zaporizhzhia. Nelle scorse ore, come segnalato da Ukrainska Pravda, un gruppo noto con il nome “Atesh” ha piazzato ordigni in almeno due camion usati dall’esercito di Mosca. Ci sarebbero diversi morti tra i soldati, anche se non arrivano conferme né da Kiev e né dal Cremlino.

L’attentato a sud di Zaporizhzhia

L’attacco, si legge sui media ucraini, sarebbe in realtà avvenuto ieri. La località è quella di Genichesk, all’interno della parte dell’oblast di Kherson ancora occupata dalle truppe russe. Si tratta di una zona strategica, in quanto affacciata sul Mar d’Azov e a pochi passi dal confine internazionalmente riconosciuto della Crimea. Qui, secondo le ricostruzioni dell’accaduto, un gruppo di miliziani del gruppo Atesh avrebbe scoperto un importante deposito di mezzi in dotazione all’esercito russo.

Il gruppo sarebbe così passato all’attacco, entrando all’interno dell’area usata dai militari di Mosca e piazzando almeno due ordigni a bordo di altrettanti camion. Gli esplosivi, di almeno 10 kg ciascuno, sarebbero poi stati azionati dai partigiani ucraini in un secondo momento. Quando cioè i soldati che avevano preso i mezzi in dotazione, sono scesi dai propri veicoli.

Si ignora il numero di persone coinvolte nell’attacco. Ci sarebbero, sempre secondo i media ucraini, diverse vittime tra i militari russi. Ma da Kiev non è arrivata alcuna conferma. Né dagli uffici governativi e nemmeno dalle sedi dei distretti militari. Il gruppo ha forse agito in autonomia rispetto all’Sbu, il servizio segreto ucraino che spesso coordina le attività dei gruppi filo Kiev nei territori occupati. Se confermato comunque, l’attentato dimostra ancora una volta il pericolo importante che si nasconde per i russi nelle retrovie del conflitto e, in particolare, nei territori occupati tra il febbraio e il marzo del 2022.

Kiev avanza a sud di Bakhmut

Sul fronte della guerra combattuta sul campo invece, nelle ultime ore gli ucraini hanno confermato la riconquista di Andriivka. Quest’ultima è una strategica località dell’oblast di Donetsk a sud di Bakhmut. L’avanzata in questo settore è arrivata al culmine di settimane di battaglie in cui Kiev è riuscita a prendere in mano l’iniziativa.

Dopo la caduta di Bakhmut a maggio infatti, gli ucraini hanno iniziato subito il contrattacco concentrandosi soprattutto lungo il settore meridionale. L’obiettivo era sfruttare il mancato consolidamento delle posizioni difensive russe, su cui ha gravato anche il difficile passaggio di testimone tra i miliziani della Wagner e i soldati regolari.

Gli ucraini hanno quindi premuto attorno le colline di Klishchiivka, da cui è possibile avere il controllo del fuoco sulla periferia meridionale di Bakhmut, e attorno l’area di Kurdiumivka. Andriivka si trova esattamente a metà strada tra le due località citate. La sua conquista potrebbe permettere un’ulteriore accelerazione dell’avanzata ucraina attorno Bakhmut, con Kiev però costretta a vedersela con una difesa russa in grado fin qui di arginare l’azione delle forze avversarie.

“Pronti a tagliare i rapporti con l’Ue”: l’ultima minaccia del Sultano

Nuove scintille tra Recep Tayyip Erdogan e l’Unione europea. Il presidente turco ha dichiarato che la Turchia potrebbe pensare di allontanarsi dall’Ue in maniera definitiva, accusando Bruxelles di voler tagliare i ponti con Ankara. Motivo della tensione: il fresco rapporto adottato dal Parlamento europeo riguardante proprio la nazione turca. Un rapporto che frena, di fatto, l’eventuale adesione del Paese all’Europa, a meno di un cambio di paradigma sostanziale da parte della stessa Turchia nell’ambito di questioni quali valori democratici e diritti umani.

La risposta di Erdogan

Alla vigilia del suo viaggio negli Stati Uniti, dove lo attenderà l’Assemblea Generale della Nazioni Unite, Erdogan ha risposto, a suo modo, all’Ue. Parlando ai giornalisti ha affermato che l’Unione europea sta adottato decisioni che l’allontanano dalla Turchia. “L’Unione Europea si sforza di tagliare fuori la Turchia ed è evidente. Noi faremo le nostre valutazioni e decideremo se prendere un’altra strada”, ha detto il leader turco.

Come detto, le parole di Erdogan sono arrivate a pochi giorni da un rapporto Ue sulla Turchia che ha creato non poco fastidio ad Ankara. Il ministero degli Esteri turco aveva reagito, lo scorso 13 settembre, con un duro comunicato in cui definitiva il contenuto del rapporto “una collezione di faziosità e pregiudizi basati su disinformazione creata da circoli anti Turchia”. Il governo turco ha accusato l’Ue di portare avanti “un agenda populista” che danneggia i rapporti con la Turchia “in un momento in cui il dialogo è in corso”.

Un primo avvertimento era arrivato nei giorni scorsi, quando il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, aveva spiegato la posizione di Ankara al commissario europeo per l’allargamento e le politiche di vicinato Oliver Varheliyi in visita proprio in Turchia. “Le relazioni tra Turchia e Ue non dovrebbero essere tenute in ostaggio dagli interessi di alcuni Paesi”, aveva detto Fidan aggiungendo che senza Ankara l’Ue non riuscirebbe ad essere un attore globale.

L’Ue e il dossier turco

Il rapporto dell’Europarlamento non è insomma affatto piaciuto a Erdogan. Non è un caso che il suddetto ministero degli Esteri turco abbia sparato a zero contro il documento di Bruxelles, parlando di contenuti frutti di “disinformazione dei circoli anti Turchia” e “approccio superficiale e non visionario del Parlamento europeo”.

Secondo Ankara, le accuse che i deputati europei hanno incluso nel rapporto riguardo alla questione dell’Egeo, del Mediterraneo orientale e di Cipro, rifletterebbero “punti di vista unilaterali” e separati dalla realtà storica e giuridica. La Turchia si è inoltre augurata che i deputati che saranno eletti nel Parlamento europeo il prossimo anno adotteranno un approccio più razionale.

“Aggiornare l’Unione doganale e finalizzare il dialogo sulla liberalizzazione dei visti senza ritardi sono gli obiettivi comuni di Turchia e Ue per il prossimo futuro”, ha concluso in ogni caso il comunicato, del ministero turco, sottolineando che “la Turchia ha il potenziale per rendere l’Ue una potenza globale contro tutte le sfide attuali, particolarmente quelle riguardanti la sicurezza, l’energia, il cambiamento climatico, la migrazione e le difficoltà economiche”.

Corpo smembrato e segni di congelamento: orrore sul bimbo di 6 anni

Il corpo senza vita di un bimbo di 6 anni, parzialmente smembrato e con segni di violenza e di congelamento, è stato rinvenuto all’interno di un appartamento di Perpignan (Pirenei Orientali) nella giornata di giovedì 14 settembre.

A effettuare il macabro ritrovamento le forze dell’ordine locali, allertate dalla singolare richiesta di funerale fatta dal padre del piccolo, un uomo di 28 anni, a un’agenzia di pompe funebri. Quando gli agenti sono entrati all’interno dell’abitazione sita in avenue Émile-Roudayre, quest’ultimo aveva una corda al collo e le mani legate. Stando a quanto riferito da Le Parisien, le due sorelline minori della vittima, di 2 e 3 anni, si trovavano ricoverate all’ospedale di Perpignan in gravi condizioni e con evidenti traumi e segni di violenza. Gli inquirenti sono tuttora al lavoro per ricostruire tutte le fasi di questa intricata vicenda: per il momento sono stati arrestati sia il padre dei tre bambini che uno zio.

Cosa è accaduto

Secondo Le Parisien, le forze dell’ordine sarebbero state allertate dai dipendenti di un’agenzia di pompe funebri, allarmati dai dettagli della richiesta di funerale fatta al telefono dal 28enne. L’uomo aveva parlato della tragica morte del figlio, specificando di aver messo il suo corpo in un congelatore con l’obiettivo di preservarlo. Un campanello d’allarme, che ha spinto il titolare dell’agenzia a fare una verifica preliminare: interpellato telefonicamente, il medico il cui nome figurava sul certificato di morte inviato dal padre del bimbo aveva rivelato di non avere mai compilato il documento in questione. Ecco i motivi per cui la polizia sarebbe stata allertata.

Quando gli agenti di due squadre sono giunti in avenue Émile-Roudayre, hanno dovuto sfondare la porta di ingresso dell’appartamento indicato, trovando un uomo con un cavo al collo, in stato di semi coscienza, e con le mani parzialmente legate dietro la schiena. Durante le perquisizioni nell’appartamento è avvenuta la macabra scoperta: in bagno, all’interno della vasca, si trovava il corpo smembrato di un bimbo con evidenti segni di violenza e di congelamento.

Il 28enne, stando a quanto riferito da L’Indépendent personaggio noto per pregressi episodi di violenza domestica, è stato arrestato e dovrà chiarire l’accaduto. In quell’abitazione, come spiegato da alcuni vicini di casa, la vittima viveva con il padre e le due sorelle più giovani.”È una famiglia molto discreta, che abbiamo visto poco. Non avevamo l’impressione che i bambini andassero molto a scuola”, hanno spiegato al quotidiano francese. La madre, che non aveva la custodia dei bimbi a causa di un deficit mentale, non era presente in casa.

Le sorelline, di due e tre anni, erano invece già ricoverate in gravi condizioni nell’ospedale locale: ad accompagnarle sarebbe stato uno zio di 33 anni, il secondo uomo finito in manette. Evidenti i segni di violenza sulle bimbe, una delle quali è giunta in nosocomio in stato di incoscienza: si parla di “tracce di politraumi facciali”. È stato aperto un fascicolo per indagare sui reati di omicidio di minore, tentato omicidio, violenza su minori da parte di congiunto, sequestro di persona, occultamento di cadavere e falso.

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