E la chiamano Europa?

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l’altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori “l’altro”. Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Amici de La Buvette, questa settimana permettetemi uno sfogo. Dispiace per voi ma in questa puntata sentirete solo una voce. La mia. Sì, perché questa Europa non è Europa. Parlano di Unione, ma io vedo solo divisione. L’Italia è stata boicottata dai così detti “Paesi membri.” I Paesi “amici. Ebbene sì! E non mi riferisco alla spinosa questione dei migranti, né alle folli imposizioni in nome del green, come la dismissione delle nostre auto catalitiche. Il problema è Expo 2030.

Nonostante il nostro impegno, la nostra candidatura e la voglia di partecipare i Paesi amici, i membri dell’Unione Europa ci hanno voltato le spalle. Sì! Hanno preferito Riad a noi, all’Italia. Hanno preferito il mondo arabo all’Europa. Hanno preferito il Regno Saudita alla Repubblica. Hanno preferito una finta democrazia alla vera democrazia. Hanno preferito i nemici agli amici. Solo in 17 hanno scelto di tifare (e votare) per l’Italia e tutti i suoi valori occidentali e in 119 per Riad. Vi rendete conto? I Paesi della dis-Unione hanno ammainato il nostro tricolore in favore di una bandiera verde con tanto di sciabola.

*ASCOLTA IL PODCAST E TUTTE LE MAGAGNE DEL REGNO DI BIN SALMAN*

Uno sgarbo, un torto portato avanti soprattutto dai francesi. I parigini ci hanno fatto la guerra sottobanco. Non cambiano mai e, soprattutto, non ci sorprendono. Ma tutti gli altri sì! All’appello mancano ben 10 voti su 27. 10 Paesi cosiddetti civili, in perenne lotta a favore dei diritti per le donne, gli Lgbtq+ e chi più ne ha più ne metta hanno deciso di turarsi il naso, chiudere gli occhi e votare per chi la parola diritti non sa nemmeno cosa significhi. I più maliziosi di voi, già immagino, diranno “beh, lo hanno fatto per i soldi!” Così l’Unione ha deciso di svendersi al migliore acquirente? Non ci voglio neanche pensare. Eppure, tutto lo fa pensare. Ma con quale faccia ora i Paesi ci faranno la morale sulle adozioni alle famiglie omosessuali e sull’annientamento del genere?

Scegliendo Riad come sede di Expo 2030 hanno scelto di condividere i valori sauditi. Valori legati alla legge coranica, alla dottrina wahhabita (un’interpretazione fondamentalista del Corano) che, ricordiamo, non sono affatto condivisibili con i nostri di valori. Quelli veri. Già, perché Riad, divenuto il paradiso di faccendieri, petrolieri e miliardari è l’inferno per tutti gli altri. Per tutti coloro i quali provengono da un mondo libero e come tali vorrebbero vivere. È Amnesty International a dirlo. E non solo. In diversi rapporti il regno autoritario della dinastia Saudita viene bollato come uno dei peggiori regni. Andiamo ai fatti, ai rapporti.

I dati

Secondo il democracy Index del 2019 l’Arabia Saudita occupa la 159ª posizione su 167 Paesi analizzati, con un punteggio di 1,93 su 10,00. Per quanto riguarda il processo elettorale e pluralismo il punteggio è 0,00 su 10,00; la funzione del governo è 2,86 su 10,00; la partecipazione politica è 2,22 su 10,00; la cultura politica è 3,13 su 10,00 e le libertà civili 1,47 su 10,00.

Molte libertà fondamentali messe nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (a dire della associazioni umanitarie) non esistono; la pena di morte ed altre pene sarebbero state applicate spesso senza un regolare processo. Non solo. L’Arabia Saudita è entrata nel mirino per l’oppressione delle minoranze religiose e politiche, per la tortura dei prigionieri e per l’atteggiamento verso gli stranieri.

Nonostante le maggiori organizzazioni internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch esprimano ripetutamente preoccupazioni per la condizione dei diritti umani in Arabia Saudita, il regno nega che tali violazioni avvengano. Con buona pace dell’Europa che ha deciso inchinarsi agli arabi e vendersi per pochi dollari sporchi non solo di petrolio ma anche di sangue.

C’è sempre uno più puro che ti epura

Ogni giorno, la sinistra accusa la destra di essere un baluardo della società patriarcale, maschilista e repressiva. «Ma come, non è possibile», direte voi, sobbalzando. In effetti avete ragione. La destra ha una leader donna, che tra l’altro è la prima, nella storia d’Italia, a raggiungere la presidenza del Consiglio. «Alla faccia del patriarcato», commenterete. Non siate ingenui. Sono dettagli sui quali politici dell’opposizione ed editorialisti di complemento non amano soffermarsi. Altrimenti dovrebbero ammettere che il valore simbolico della Meloni al comando annienta molti luoghi comuni sulla destra retriva.

La sinistra da sempre reclama una diversità antropologica, una superiorità morale, una maggiore purezza d’idee e d’intenti. Accadeva ai tempi di Silvio Berlusconi, quando nessuno era abbastanza anti-cavaliere, e dunque si assisteva a una sconcertante caduta nel più grottesco, ma non per questo innocente, estremismo. Accadeva ai tempi del giustizialismo, quando nessuno era abbastanza a favore dei magistrati, e pazienza se ci andava di mezzo lo stato di diritto. Poi saltava fuori che gli acerrimi nemici di Silvio pubblicavano libri con le case editrici di… Silvio. Poi saltava fuori che nessuno era estraneo al giro di mazzette, e chi era tagliato fuori in Italia andava a bussare alle porte dell’Unione Sovietica. Oggi non si è mai abbastanza contro il patriarcato, a nessuno interessa se insieme all’oppressione da parte del maschio (tassativamente bianco e cristiano) si butta via anche la famiglia stessa, anzi meglio.

Poi però arriva l’incidente che rovina tutto. La prova che chi predica bene, razzola male. Eleonora Evi, la co-portavoce di Europa Verde, ha dato ieri le dimissioni, accusando il partito di essere «patriarcale» e malato di «autoritarismo». Poi ha definito il proprio ruolo come «carica femminile di facciata» e aggiunto di non voler essere una «marionetta». Il leader Angelo Bonelli ha negato tutto e rivendicato il primato dei Verdi nella parità di genere.

La logica dell’«io sono più puro» finisce sempre male: c’è sempre uno più puro che ti epura, e non è un gioco di parole, ma una descrizione di quello che succede da anni nel campo avverso alla destra. Tante belle parole, che non costano nulla. Tanti episodi di incoerenza. Tanti dirigenti, uno più puro dell’altro ma soprattutto uno più incapace dell’altro. Raramente il moralismo si sposa con l’intelligenza.

Sondaggio definitivo sulla Schlein: l’80% degli elettori non la vuole leader della sinistra

Il campo largo di Elly Schlein e Giuseppe Conte è solo la succursale del nuovo diamante della gauche nostrana: la Cgil di Maurizio Landini. E se questa notizia, almeno a livello politico, veniva confermata dalle cronache quotidiane, l’ultimo sondaggio Emg/Adnkronos è la prova del nove: il nuovo leader della sinistra? Per un italiano su quattro è il capo del sindacato più rosso d’Italia, Maurizio Landini. L’ex avvocato del popolo Conte e la stella nascente dem Schlein finiscono rispettivamente secondi e terzi nel podio della sinistra.

La farsa, come spesso accade dalle parti della sinistra, non è finita. Se per un italiano su quattro il segretario della Cgil è il vero leader dell’opposizione, la percentuale raddoppia tra gli stessi elettori di centrosinistra: tra questi uno su due vede Landini come possibile futuro numero uno. Tra i principali ammiratori di Landini, forse anche per assenza di leadership dalle parti del Nazareno, troviamo gli elettori dem. In particolare risponde sì a Landini leader il 42% degli elettori del Partito democratico e il 30% degli elettori pentastellati. L’ennesima pugnalata alle spalle nei confronti di Elly Schlein e del suo cerchio magico, in crisi di identità e di consenso da qualche mese a questa parte.

Le altre domande dell’ultima rilevazione Emg/Adnkronos, se possibile, sono ancora più impressionanti per dem e soci. A domanda secca, “Tra Landini, Conte e Schlein chi vorrebbe come leader della sinistra?”, il 32% degli intervistati sceglie Landini, il 30% Giuseppe Conte e solo il 20% Elly Schlein. Cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia: l’effetto Schlein, costruito ad hoc dalla sinistra mediatica e giornalistica, è solo un miraggio. Dall’altro lato, invece, il massimalismo landiniano, condito dal suo continuo modus operandi ideologico, stanno cominciando a fruttare per il segretario della Cgil e compagni. Il dato certo è uno solo: la Cgil, da quando Schlein è diventata la nuova segretaria del Pd, ha cominciato a rivestire un ruolo politico tout court. Gli esempi che vanno in questa direzione si sprecano: l’opposizione a priori di Landini nei confronti della manovra, l’asset sullo sciopero proclamato da Cgil-Uil contro il governo e, solo per ultimo, lo contro verbale ingaggiato dal numero uno del sindacato rosso con il leader del Carroccio Matteo Salvini. Tasselli di un puzzle più complicato: la scalata alla leadership della sinistra italiana.

Nota metodologica:

Il sondaggio è stato realizzato da Emg/Adnkronos. La rilevazione, basata su dichiarazioni anonime, è stata condotta con metodo mixed mode (Cati – Cami – Cawi). Il sondaggio è stato realizzato tra il 28 e il 30 novembre (campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne per sesso, età, regione, classe d’ampiezza demografica dei comuni). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it

Expo 2030: terzo posto, faccia di bronzo | L’editoriale di Matteo Renzi

Il fatto che sarà Riad a ospitare l’Expo2030 non stupisce chi da anni sottolinea come stia cambiando l’Arabia Saudita. Quel Paese conosce una trasformazione così profonda che solo chi vive di ideologia può negare la forza della Vision2030, il programma innovativo lanciato da Mohamed Bin Salman. No, la sorpresa che è arrivata da Parigi non riguarda Riad, riguarda Roma.

Che l’Italia potesse perdere era un’ipotesi. Che l’Italia abbia perso così è una vergogna assoluta. Ricapitoliamo la storia per chi si fosse perso le puntate precedenti.

Roma si candida alle Olimpiadi del 2024. Roma ha il progetto migliore, una squadra straordinaria e soprattutto ha i numeri per vincere. Il CIO ci considera la nazione favorita. Nella cena inaugurale delle Olimpiadi del 2016 i francesi di Parigi e gli americani di San Francisco davano per scontata la vittoria italiana. Ma nessuna delle delegazioni presenti aveva in mente la variabile grillina. La vittoria di Virginia Raggi infatti cancella la candidatura della Capitale. Parigi brinda prendendosi i Giochi del 2024, San Francisco quelli del 2028, noi ci attacchiamo al tram.

A quel punto la Raggi pensa bene di candidare Roma all’Expo del 2030, solo qualche anno dopo l’organizzazione dell’Expo a Milano. E a quel punto state bene attenti a quello che accade. Appena la Raggi perde le elezioni, la maggioranza di Gualtieri – e non solo la maggioranza, anche alcuni consiglieri dell’opposizione – votano la Raggi Presidente della Commissione Expo. Un nome, una garanzia, insomma. E tutti insieme procediamo allegri verso il disastro con un Governo imbarazzante, un ministro degli Esteri che espone la Farnesina a una figuraccia storica, un sindaco inconsapevole della batosta e i grillini esultanti.

Conclusione: l’Italia prende 17 voti. Non possiamo definirla una Caporetto solo perché dopo Caporetto è cominciata la riscossa. E qui nessuno immagina non dico una riscossa, ma nemmeno un segno di reazione. Un ministro che chieda scusa. Un funzionario che salti. Un sindaco che faccia un rimpasto. Ci prendiamo una botta senza precedenti e i giornali fischiettano, i politici smussano, i complottisti attaccano i petrodollari.

Ora passi per l’inconsistenza di quei commentatori che da tre anni non sono in grado di leggere le trasformazioni geopolitiche del Medio Oriente (segnalo la luminosa eccezione di un Federico Rampini che sul Corriere della Sera dimostra di aver capito ciò che altri nemmeno vedono), ma vogliamo spiegare che abbiamo perso non solo con l’Arabia Saudita ma anche con la Corea?

Quello che mi lascia senza parole è vedere alcuni ministri in fin dei conti giustificare questo risultato e spiegare che non è andata così male. Ma dai! Una nazione del G7 che arriva terza su tre come la giudichiamo? È vero, arrivare terzi dà diritto a salire sul podio. Ma se i concorrenti sono solo tre non vinci la medaglia di bronzo: sei più semplicemente una faccia di bronzo.

La profezia di Tremonti sulle due guerre ai confini dell’Europa

L’illusione della pace universale è ormai alle spalle, la politica deve riflettere sul dossier difesa: Giulio Tremonti non ha dubbi. Aprendo la seconda edizione della Conferenza internazionale “La battaglia di Pavia e il futuro della difesa europea (1525-2025)”, il presidente di Aspen Institute Italia e della Commissione Affari esteri e Comunitari dellla Camera dei Deputati s’è soffermato sul clima di alta tensione a livello internazionale ed è tornato al 2003, quando il governo italiano propose di emettere eurobond per infrastrutture e difesa europea. La proposta venne respinta, ma oggi lo scenario è differente.

“Oggi che gli eurobond esistono devono essere applicati anche all’industria della difesa”, l’analisi di Tremonti: “Terminata l’illusione della pace universale – idea base della globalizzazione, l’ultima utopia del ‘900 – torna essenziale dare priorità al sistema della difesa: come diceva Luigi Einaudi ‘per una nazione importa più essere indipendente che essere ricca’”. Secondo l’ex titolare del Tesoro, in un sistema geopolitico caratterizzato dal ‘global disorder’ con due guerre ai confini europei – riferimento alla guerra in Ucraina e al conflitto in Medio Oriente –“la difesa torna ad assumere un ruolo altamente strategico”.

Uno dei temi al centro del dibattito ormai da diversi anni è la creazione di una difesa comune europea. Intervenuto alla conferenza Internazionale di Pavia, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha evidenziato che “l’idea di un esercito europeo è senza dubbio una rivoluzione nel campo della Difesa e della Unione europea”. Come riportato dalla Provincia Pavese,il braccio destro del premier Meloni ha posto l’accento sulla necessità di tornare ad aumentare gli organici e le spese di investimento militare:“Questa non è più una decisione politica ma è una necessità di sopravvivenza: non possiamo non farlo. La Difesa è tornata ad essere il prerequisitivo della libertà, della democrazia e dello sviluppo”. In linea con Tremonti, Crosetto ha ribadito che l’unica possibilità è quella di mettere insieme le difese di Paesi diversi: “È un percorso in cui siamo facilitati perché lo abbiamo iniziato nella Nato dove da anni facciamo addestramenti congiunti e questo dobbiamo trasferirlo a livello europeo”.

Difesa che è una componente fondamentale di ogni proiezione di politica estera, ha aggiunto il titolare della Farnesina Antonio Tajani: un obiettivo da centrare “anche per rafforzare il nostro peso all’interno della Nato, non in contrapposizione con gli Stati Uniti ma per diventarne tutti insieme, in una logica di complementarietà, un partner ancora più credibile. In coerenza, del resto, con l’azione di politica estera di questo Governo, che ha nell’Europa e negli Stati Uniti le sue due stelle polari”.

Soldi pubblici agli amici per pellicole da flop

Premessa: il finanziamento pubblico delle opere cinematografiche è una giungla. Un rompicapo enigmatico in cui a vincere sono stati troppo spesso autori schierati a sinistra. Soprattutto durante la gestione di Dario Franceschini al ministero della Cultura. Un groviglio burocratico, tra Tax Credit, contributi selettivi, riconoscimento di eleggibilità culturale e contributi automatici. Chi più ne ha più ne metta. Tante opportunità, di cui non ha usufruito la pellicola «C’è ancora domani» di Paola Cortellesi. Un grandissimo successo al botteghino, senza bisogno di ottenere prebende ministeriali.

Nel viaggio delle mancette pubbliche agli autori progressisti è quasi obbligatorio partire da Walter Veltroni. Ex sindaco di Roma, primo segretario del Pd, ministro dei Beni Culturali e tante altre cose. Ora anche giornalista e regista cinematografico. Difficile trovare una sua opera che non sia stata finanziata con contributi pubblici. Almeno quanto è complicato rintracciare un suo film di successo. Partiamo dalla coda. L’ultimo film di Veltroni, Quando, in sala a marzo del 2023, è stato finanziato con un contributo del Mibact e anche della Regione Lazio, governata fino a febbraio di quest’anno da un altro ex segretario del Pd: Nicola Zingaretti. Aiuti pubblici e riconoscimento di «eleggibilità culturale», a fronte di un film considerato noioso da gran parte della critica e con un incasso al Box Office di 618mila euro. Un altro flop. Come tutti gli altri. Anche quelli finanziati con le casse pubbliche. Da La scoperta dell’Alba del 2013 all’oscuro docufilm del 2022 Ora tocca a noi! su Pio La Torre, considerato di «interesse culturale» dal Mibact. Completamente diverso lo spessore di uno dei film che hanno goduto dello stesso finanziamento diretto negato a Cortellesi. Parliamo di Rapito di Marco Bellocchio. Unica cosa in comune con Veltroni? L’appartenenza politica e culturale alla sinistra. Identità mai rinnegata da Gabriele Salvatores, ex militante di Lotta Continua, che di recente ha dichiarato di essere tornato a votare il Pd in occasione delle ultime primarie per scegliere Elly Schlein. Il film Comedians di Salvatores, del 2021, è stato finanziato dal Ministero della Cultura. Ma per quanto riguarda il regista di Mediterraneo, bisogna sottolineare il caso de Il Ritorno di Casanova, uscito a marzo del 2023. Il film di Salvatores ha ricevuto 3 milioni e 269mila euro di contributi pubblici dal Ministero, a fronte di un incasso al botteghino in Italia di 760mila euro.

Comunque meglio de I fratelli De Filippo di Sergio Rubini, ex marito di Margherita Buy, pure lui saldamente schierato a sinistra. Il film del 2021 sui due teatranti napoletani Eduardo e Peppino ha ottenuto quasi 5 milioni di euro di contributi ministeriali complessivi. Solo che l’opera è stata in sala per soli tre giorni e ha incassato quasi 98mila euro. Il film è stato poi mandato in onda su Rai 1 il 30 dicembre del 2021. Scorrendo l’elenco dei finanziamenti del Mibact degli ultimi anni non si contano i titoli sconosciuti e i flop clamorosi, «meritevoli» di contributi altrettanto clamorosi. Soprattutto se il cuore del regista o del produttore batte per la sinistra.

Gianni Alemanno fa nascere l’ennesimo, bizzarro partito di destra no-global

Questo sabato, a Roma, all’Hotel Midas che diede vita al Psi di Craxi, Gianni Alemanno annuncerà al mondo il suo partito. Avrà un unico scopo: togliere voti a quello di Meloni, colpevole, secondo l’ex sindaco di Roma, di essere diventato «eurista», «ultra atlantista» e «politicamente corretto». Il congresso di fondazione trasformerà l’attuale movimento chiamato Forum dell’Indipendenza italiana in qualcosa di più strutturato. La speranza è quella di tenere dentro filorussi e filopalestinesi, antiglobalisti di estrema destra e di estrema sinistra, nostalgici del fascismo e di Amintore Fanfani.

Della partita sarà anche Marco Rizzo, il comunista senza capelli etichettato come «servo della Nato» durante la guerra in Jugoslavia, quando era al governo con D’Alema, e che ora si sta tenendo a galla col rossobrunismo esplicito, imbarcando nel suo giro influencer improbabili, slogan trumpiani e divertendosi un mondo. Non una fusione con Alemanno, bensì solo una consonanza di interessi, fa sapere lui: a gennaio il partito di Rizzo, Democrazia Sovrana e Popolare, terrà il suo, di battesimo, insieme all’altro reggente che Francesco Toscano di Visione Tv, grande fan di Ratzinger e del Cardinale Viganò. Di sicuro con Alemanno ci sarà Fabio Granata, suo vice ai tempi del Fronte della Gioventù, poi ex finiano e poi ancor assessore in giunte di sinistra. La scorsa primavera li si poteva incontrare alle lezioni pubbliche di Alessandro Orsini.

Eretici a raccolta per rubare consenso alla destra addomesticata da Bruxelles e da Washington, convinti che le elezioni saranno anticipate e la legislatura più a destra dal crollo del Muro non ce la farà. Ma non vero che Alemanno, eletto sindaco della Capitale nel 2008, sull’onda di indignazione xenofoba dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani, croce celtica sul petto esibita alle Invasioni barbariche in campagna elettorale, è di estrema destra, tiene a precisare. È piuttosto «fuori dagli schemi», spiega a Repubblica. «In Argentina ero contro Milei, troppo liberista, e in Israele critichiamo Netanyahu: quello che sta facendo non può essere condiviso»

Il suo esperimento non è nuovo. L’alleanza improbabile con la sinistra conservatrice e gli orfani del governo giallo-verde era stato già tentato durante il Covid e appena scoppiata la guerra in Ucraina. Una fiaccolata, nel novembre dell’anno scorso, per chiedere la fine della sanzioni alla Russia e dell’invio di armi a Kyiv. In una locandina di qualche mese fa, relativa a un evento preparatorio, si leggeva: «attesi interventi prestigiosi come quelli di Luciano Barra Caracciolo, Diego Fusaro, Simone Pillon, Vittorio Sgarbi, Andrea Zhok». È la galassia del «dissenso» che non si rassegna alla fine del laboratorio sovranista, che già non aveva perdonato al Conte I i cedimenti su «vincolo esterno» e immigrazione, e che oggi vede la destra meloniana come incarnazione dell’ennesimo tradimento: persino sulla cultura, dove si farebbe ben poco per dare sostanza agli allarmi sulla «sostituzione etnica». Le fiction di Sangiuliano su D’Annunzio non bastano alle aree reazionarie radicali.

Alemanno sta a Meloni come un altro precedente simile ma più illustre, Gianfranco Fini, stava quindici anni fa a Berlusconi? Non è una equazione appropriata, perché sono diversi gli attori ed è diversa l’Italia. Soprattutto è diverso il peso. Fini voleva una destra rispettabile, global-ottimista che piacesse – incredibilmente – anche un po’ alla sinistra perbene, e a Eugenio Scalfari. Alemanno è invece il volto di destra in rivolta molto meno visibile in televisione, meno potente, meno razionale. È una rivolta che per ora può a malapena rappresentare un fastidio per chi manovra, senza prospettive entusiasmanti.

I quotidiani progressisti e il ceto medio riflessivo avrebbero probabilmente ignorato, questo Forum, se a partecipare all’iniziativa, secondo i primi manifesti, insieme ad Alemanno, «moderati» da Francesco Borgonovo, ora vicedirettore della La Verità e da sempre collaboratore del Primato Nazionale, organo di CasaPound, non avessero visto due nomi che li hanno fatti sobbalzare: l’attore Moni Ovadia e la scrittrice Elena Basile. Il primo è un attore, cantante e scrittore ebreo da sempre molto critico verso Israele, pacifista, compagno sempre disponibile a confrontarsi con chiunque lo inviti. La seconda, ex ambasciatrice – anche se il titolo glielo hanno contestato – si è fatta conoscere in televisione solo da poco, per le sue partecipazioni ai talk show di Lilli Gruber e Corrado Formigli, nel ruolo di vittima un po’ svaporata dei difensori dello status quo.

Un breve giro di telefonate in allarme ha portato la sinistra allarmata, convinta che si trattasse di una bufala, alla dura realtà: di quel meeting, Ovadia e Basile sapevano poco e nulla. Pare sia stato Rizzo a convincerli a «partecipare a un dibattito». Cosa che fanno di sovente, come altri di quel segmento demografico e politico, senza chiedere patenti e senza fare prima una ricerchina su Google. «Sono stato invitato dall’ex sindaco Alemanno a partecipare a una tavola rotonda sulla Palestina con Elena Basile e Marco Rizzo e NON a un EVENTO FONDATIVO DI UN PARTITO. Quindi, non potrò partecipare», ha spiegato Ovadia. Stessa ragione ha addotto Elena Basile, tramite Twitter (oggi noto come X), per motivare il suo, di ritiro.

È dramma della sinistra antimperialista senza casa politica che a un certo punto accetta di dire di sì a tutti, sperando così di trovare quello che cerca, serendipicamente. Chi Solo che, così come nel caso del libro sulla guerra in Ucraina di Luciano Canfora scritto a quattro mani con Borgonovo, non c’è nulla di strategico in certe scelte inconsulte. Non ha senso passare da palchi e case editrici prestigiosi a frequentare paludi nere, amici di Lealtà e Azione e ospiti di Feste del Sole. È un cedimento – inutile – all’egocentrismo che espone il pacifismo stordito alle critiche e alla delegittimazione. È un mezzo che fa diventare il fine radioattivo.

Meglio forse lasciare questa competizione tutta alla destra. Che del resto abbonda, da anni, di contendenti, anche se precedenti non sono buoni: Italexit di Gianluigi Paragone è l’unico tentativo che ancora resiste nei bassifondi dei sondaggi; altri, come la fusione tra Simone Di Stefano (ex CasaPound) e Massimo Adinolfi, si sono disintegrati. Ma il sogno che avrà accompagnato le notti di Alemanno, il «chiamo l’esercito» interpretato da Max Paiella, è quello di candidare il Generale Vannacci, che ha messo la destra istituzionalizzata ed europeizzata contro quella sempre autoritaria. L’autore del best-seller da oltre 100mila copie, però, per ora non ne vuole sapere.

Coldiretti va a coltivare mezza Africa

Zappa e aratro. Si parte. Il made in Italy agro-alimentare sbarca nel continente africano con il Piano Mattei. Dallo sviluppo di produzioni locali a farmers market, i classici mercatini Coldiretti (nella foto, il presidente, Ettore Prandini). Oltre 40mila ettari di terreno, coltivati per la rinascita dell’Africa, dall’Algeria al Ghana, dall’Egitto all’Angola. È il progetto promosso da Coldiretti con BF, Filiera Italia e Cai (Consorzi Agrari d’Italia), presentato in occasione dell’apertura del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, organizzato a Villa Miani a Roma in collaborazione con The European House – Ambrosetti. Un doppio obiettivo: creare posti di lavoro nel continente africano e fermare le partenze verso l’Europa. È il cuore del piano Mattei, un progetto di cooperazione e aiuti tra Italia e Africa su cui punta il governo Meloni. Il piano è già passato in Consiglio dei ministri per il via libera. Si punta a creare un mercato legato all’agricoltura nei territori africani. La missione è trasferire il know italiano per la produzione locale e lo sviluppo di nuove reti di vendita con i farmers market. Tre gli attori principali del progetto: Coldiretti, ministero della Sovranità alimentare e Agricoltura e ministero degli Esteri. La collaborazione punta a rafforzare la cooperazione con i paesi in via di sviluppo per promuovere un’agricoltura sostenibile e responsabile in Africa, aumentare la sicurezza alimentare principale causa di instabilità e fornire una alternativa concreta al fenomeno delle migrazioni, evitando il depauperamento sociale, economico e ambientale di quei territori. Nello specifico si prevede la coltivazione su 10mila ettari in Algeria, 15mila in Egitto, 8mila in Angola e 7mila in Ghana. La missione prevede la produzione di colture strategiche per il consumo locale, dal frumento alla soia, dal mais al riso, dalle banane a ortaggi e frutta di vario tipo. Il governo locale dei diversi Paesi si impegna ad acquistare la maggior parte del raccolto (fra il 50% e 80%) a prezzi definiti e la parte restante a prezzi di mercati oppure viene ceduto a privati. Le sementi vengono fornite da Sis (Società italiana sementi). Consorzi Agrari d’Italia (Cai) si occupa di fornire materiali e macchinari, dai fitofarmaci con etichette d’uso in lingua locale ai macchinari in vendita o noleggio, mentre gli agricoltori locali potranno seguire corsi di formazione e specializzazione erogati da BF. Positivo il commento del ministro Lollobirgida: «Crediamo di arginare un problema a valle dei flussi migratori in maniera decisa e ragionare su come risolvere a monte questo problema che non è sostenibile a livello planetario e che se incontrollato crea rischio alla sicurezza nazionale. In Africa, e in particolare in Tunisia, ci approcciamo con un metodo diverso, quello di offrire le nostre tecnologie, le nostre produzioni, le nostre capacità per portare a livelli qualitativi importanti i prodotti di questa terra, che gli permettono di crescere. E questa è la sfida legata al Piano Mattei». Una sfida appena iniziata.

Scintille tra Meloni e Renzi in Aula al Senato

(ANSA) – ROMA, 23 NOV – Botta e risposta dai toni accesi, al Senato, tra Giorgia Meloni e Matteo Renzi durante il question time con la premier in aula.

Il senatore di Italia viva ha puntato il dito contro la mancata coerenza della presidente del Consiglio che “si è fermata all’opposizione”. Quindi ha contestato il “disegno paradisiaco che ha fatto e che non corrisponde alla realtà del Paese”, citando ad esempio le dichiarazioni fatte sugli sbarchi dei migranti che invece “sono raddoppiati”, le politiche anti europee (“Aveva detto alla Germania che avrebbe dovuto capire che saremmo dovuti uscire dalla Ue e ieri l’ho vista in tutta altro veste con il cancelliere tedesco”) e le promesse sul taglio delle accise sulla benzina.

Meloni ha ribattuto ringraziando ironicamente Renzi per il suo “assist”:”non mi aspettavo questa opportunità”. Dunque ha citato la cresciuta di fiducia dei mercati, “la promozione di 4 agenzie di rating, che non sono di solito buone su questa materia”, il fatto che “lo spread sia ai minimi da molto tempo: sono dati che dicono qualcosa in più rispetto alle valutazioni delle opposizioni”. Poi la punzecchiatura sulla benzina: “Noi non abbiamo la bacchetta magica per i miracoli. Come lei sa, il costo della benzina dipende soprattutto dalla scelta dei paesi che detengono il petrolio. Se ci vuole dare una mano con il suo amico bin Salman (il principe ereditario saudita, ndr ), forse ci aiuta ad abbassare il prezzo. Visto che ha buoni rapporti, faccia da ponte per aiutare gli italiani”. (ANSA).

Lollobrigida e il treno, scoppia il caso: bufera sul ministro

(Adnkronos) – E’ bufera su Francesco Lollobrigida dopo una ricostruzione del Fatto Quotidiano che accusa il ministro dell’Agricoltura di aver fatto fermare nella giornata di ieri un treno Frecciarossa diretto a Napoli e in forte ritardo per un guasto sulla tratta, per poi scendere ad una fermata ‘straordinaria’ nei pressi di Roma, a Ciampino, e continuare così il viaggio in auto verso l’inaugurazione del parco di Caivano dove era atteso. Una ricostruzione che ha catturato l’attenzione delle opposizioni e scatenato accuse e critiche nei confronti del ministro. Da Italia Viva al Pd al M5S, si va all’attacco: “Dimissioni”, “Treni italiani come auto blu”, “Ministro della sovranità ferroviaria”, “Devastante”. Ma Fratelli d’Italia si schiera in difesa del titolare dell’Agricoltura: “Contro di lui sciacalli, nessun disagio ai cittadini” 

“Se il ministro Lollobrigida ha davvero fermato un treno Alta Velocità in una stazione sul percorso Roma-Napoli ed è sceso proseguendo poi in macchina siamo in presenza di un abuso di potere senza precedenti. I ministri possono usare i mezzi dello Stato ma non possono fermare i treni di tutti i cittadini. Se la notizia sarà confermata chiederemo in Aula le dimissioni di Lollobrigida”, il commento del leader di Italia viva Matteo Renzi sui social.  

“Il ministro Lollobrigida non può trasformare i treni italiani nella sua auto blu. La fermata straordinaria imposta da Lollobrigida a Ciampino, come si apprende oggi dalla stampa, è un atto di un’arroganza ingiustificabile, uno schiaffo in faccia a tutti i cittadini e le cittadine che erano sul suo stesso treno, già in ritardo, e a tutte le persone che fronteggiano ogni giorno i disservizi causati dalla mancanza di finanziamenti nei trasporti da parte del governo Meloni di cui fa parte. Presenteremo immediatamente un’interrogazione in Parlamento per fare subito piena luce su questa brutta storia”, rimarca il deputato dem Andrea Casu, della presidenza del Gruppo Pd alla Camera. 

“Dalla sovranità alimentare per l’Italia alla sovranità ferroviaria per se stesso. Se risultasse vera la notizia che Lollobrigida ha fatto fermare un treno, non dovrebbe attendere oltre e correre in Parlamento a spiegare. I cittadini, già vessati da un sistema di trasporti nazionale penoso, devono anche subire l’umiliazione di un ulteriore ritardo per le esigenze di un ministro. Il vero problema, è che questa classe politica oggi al governo non si sente amministratore pro tempore del Paese ma padrone dell’Italia, tanto da sentirsi in diritto di bloccare i treni”, afferma il segretario di Più Europa Riccardo Magi. 

“Il fatto, che non è stato smentito, rappresenta un segnale devastante della politica ai cittadini a fronte di una manovra lacrime e sangue. Una politica che ‘lascia a terra’ famiglie e cittadini mentre utilizza per sé un mezzo di trasporto e ne fa un privilegio personale. Un segnale devastante. Lo definirei un privilegio da prima repubblica ma non si dire se ministri della prima repubblica si siano mai permessi di chiedere un privilegio del genere. Ci riserveremo tutte le valutazioni del caso”. Così il presidente del M5S Giuseppe Conte, commenta la notizia. 

“Non è una cosa accettabile. Dimostra una concezione sbagliata dell’uso del potere pubblico e mostra scarso senso della dignità rispetto al ruolo ricoperto. Che almeno si scusi”. Così Carlo il leader di Azione Carlo Calenda sui social.  

“Leggo da una ricostruzione giornalistica accurata de Il Fatto che ieri il ministro Lollobrigida ha pensato bene di usare un treno Frecciarossa su cui stava viaggiando come mezzo personale, scendendo alla fermata (non prevista) di Ciampino perché stava accumulando troppo ritardo e salire sull’auto blu per far prima”, le parole del segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra. “E allora mi viene da pensare – prosegue il leader di SI – a quei milioni di pendolari, lavoratori e studenti, che ogni giorno ne passano di tutti i colori sui regionali e non possono nemmeno lamentarsi. Sull’arroganza da privilegiato di Lollobrigida qualcuno del governo dovrà dare spiegazioni in Parlamento, perché – conclude Fratoianni – di una versione governativa del Marchese del Grillo gli italiani non ne hanno proprio bisogno. E forse non hanno neanche bisogno di Lollobrigida al governo”.  

“Oggi dal solito quotidiano, con la schiera al seguito di alcuni parlamentari della sinistra, arriva l’ultimo attacco spuntato contro il ministro Lollobrigida. La sua colpa sarebbe quella di essere sceso, a causa di un grave ritardo, dal treno Frecciarossa e senza recare alcun disagio ai passeggeri, pur di presenziare a un evento importante come l’inaugurazione del parco urbano a Caivano. È lampante che l’assenza di un ministro ad un’iniziativa come quella di ieri che sancisce, grazie anche al Governo Meloni, la rivincita dei cittadini contro la criminalità, sarebbe stato un vero e proprio danno all’immagine dello Stato”, la difesa del ministro del capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti. 

“Se la colpa di Lollobrigida è quella di voler esser presente a tutti i costi a Caivano, di aver voluto usare un mezzo pubblico e di aver trovato prontamente un’alternativa per raggiungere il luogo, è evidente -aggiunge l’esponente di Fdi- che certi sciacalli non sappiano più a cosa aggrapparsi. E fa davvero sorridere la richiesta di dimissioni da parte di Renzi, che arriva proprio da colui il quale si fece fare ‘l’air force Renzi’ tutto per lui. Solidarietà al ministro Lollobrigida”, conclude. 

“Stamattina, letta la notizia inerente il ministro Lollobrigida, mi sono premurato di sentire i vertici dei soggetti coinvolti o che potevano essere coinvolti nell’episodio. Più per il risalto dato al fatto che ad altro. Nessuno mi ha evidenziato elementi di criticità: nessun costo, nessun aggravio di ritardo, nessun rischio, nessun disagio per nessun passeggero, nulla di nulla”, dichiara quindi l’FdI Galeazzo Bignami, viceministro alle Infrastrutture e ai Trasporti. 

“Si è annunciato a tutti i passeggeri che, visto il ritardo significativo accumulato, vi era la possibilità di scendere a Ciampino e, una volta arrivati, si è data a tutti i passeggeri la possibilità di scendere. Come confermatomi da Trenitalia situazioni simili sono già avvenute in passato e sicuramente riavverranno in futuro. In fin dei conti – prosegue – si parla di una figura istituzionale che voleva mantenere l’impegno assunto di essere presente ad un evento Istituzionale e a cui, per ragioni da lui indipendenti, rischiava di non esserci, anche con evidenti conseguenze di sicurezza e ordine pubblico. Siamo qua tutti a parlare dell’importanza che lo Stato sia presente in territori come Caivano e quando si fa di tutto per esserci ci si lamenta che lo si faccia. Lo trovo pretestuoso”.  

“Se il ministro fosse arrivato in ritardo, qualcuno si lamenterebbe del disagio arrecato a decine di persone, lamentandosi dei costi, del disagio causato, dell’inutile dispendio di risorse pubbliche. Qua parliamo di un fatto che non ha determinato alcun costo, disagio, rischio, ritardo a nessuno. E neppure di un fatto mai avvenuto prima. Mi sembra l’ennesima conferma che per qualcuno si debba contestare a prescindere senza guardare il merito delle cose”, conclude. 

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