Donna incinta e bimbo muoiono, danneggiato pronto soccorso

(ANSA) – PALERMO, 13 SET – Una donna incinta di 28 anni e il suo bimbo sono morti all’ospedale Villa Sofia di Palermo. Non si conoscono ancora le cause del decesso. La donna, che abitava in via Costante Girardengo nel quartiere dello Zen, è stata portata in ospedale dai familiari. L’ambulanza del 118, chiamata in soccorso, quando è arrivata a casa non ha trovato la paziente. I parenti si sono scagliati contro i sanitari del mezzo aggredendoli; altri si sono presentati al pronto soccorso e presso la camera mortuaria dell’ospedale lanciando diversi oggetti contro le finestre. La loro reazione è stata ripresa con i cellulari da alcuni ricoverati. Qualcuno ha cercato anche di entrare all’interno dell’ospedale. Sul posto sono arrivate in massa le volanti della polizia e agenti in assetto antisommossa che hanno riportato la calma. (ANSA).

Laura Sgrò: “Le prove degli avvocati del branco di Palermo non hanno alcuna rilevanza, screditare la vittima non funziona più”

Abbigliamento, stile di vita, abitudini: gli avvocati dei sette ragazzi accusati di aver stuprato una diciannovenne a Palermo, lo scorso 7 luglio, adotteranno la stessa strategia che fu messa in piedi contro Donatella Colasanti, sopravvissuta al massacro del Circeo, e contro Fiorella, parte lesa nel primo processo per stupro divenuto documentario. Entrambe furono trattate, udienza dopo udienza, da imputate. Ma erano gli anni Settanta e le donne non avevano nemmeno dei profili social, oggi pozzi senza fondo di informazioni da usare come potenziali armi, per screditare l’avversario. Ma “Frustra probatur quod probatum non relevat”: vana è la prova che non ha rilevanza. E lo stile di vita delle vittime di stupro, quale che sia, non ne ha. A sottolinearlo è Laura Sgrò, dal 2017 avvocato della famiglia di Emanuela Orlandi, del Tribunale Vaticano e con esperienza in casi di violenza sessuale.

«Le abitudini di una donna che denuncia uno stupro non hanno alcun valore in sede processuale», spiega, «premesso che siamo lontani dal processo e ancora di più dalla sentenza, il collegio dovrà verificare se vi è stato un consenso o se il consenso non vi sia stato, come sembra intendersi dalle chat tra i ragazzi, che riferiscono che la ragazza a un certo punto avrebbe detto loro di smettere». Perché “basta, non ce la faccio più”, non suona esattamente come un sì. Secondo Sgrò inoltre la diciannovenne «avrebbe dovuto dare il consenso, o almeno palesarlo, sette volte: sappiamo che non è stato così. Sappiamo, dagli atti, che la ragazza aveva assunto dosi massicce di alcol e quindi non era in condizioni di ragionare o esprimersi lucidamente: per questo se una persona è ubriaca la porti a casa».

Ma sappiamo anche «dalle loro stesse conversazioni, che li ha pure pregati di smetterla». E loro in tutta risposta l’hanno picchiata. Nonostante le chat e le brevi clip video girate durante la violenza da Angelo Flores, uno degli indagati, la linea della difesa sembra essere quella di spostare la responsabilità sulla vittima: dimostrarne l’immoralità, trasformando così lo stupro in un rapporto consensuale. E dire che la giovane si è allontanata volontariamente con loro dalla Vucciria sembra essere funzionale, ma non lo è. Era con loro, è vero. Lo rivelano le nuove immagini della nottata del 7 luglio. Peccato che «non significa niente», commenta la legale, «e anche se la giovane avesse acconsentito a un rapporto sessuale di gruppo per poi cambiare idea, in quel momento i ragazzi avrebbero dovuto interrompere l’atto e lasciarla libera di andare».

La strategia di difesa dei legali dei palermitani ricorda non troppo vagamente quella adottata da Angelo Palmieri, avvocato di uno degli assassini del Circeo: “se l’avessero tenuta accanto al focolare non sarebbe accaduto nulla”. Ma è anche vero che ogni difesa è legittima anzi, «è un diritto inalienabile e garantito dalla Costituzione, pertanto sono liberissimi di attuare quella che credono più efficace», sebbene, «ragionamenti come questo ci impongono di ribadire quanto detto da Tina Lagostena Bassi nell’arringa del 1979, una donna ha il diritto di essere quello che vuole», aggiunge che anche «la Cassazione ha chiarito l’importanza della chiara esternazione del consenso, facendo un ulteriore passo avanti: non siamo più nell’era del “no che significa no”». Dove non c’è un esplicito sì, c’è un no. «E dal punto di vista processuale conterà questo», conclude Laura Sgrò. E da quello mediatico? Questo processo rischia di diventare “un penoso gioco al massacro che riconsegna all’opinione pubblica l’immagine schizofrenica della donna santa o puttana”. Lo scrisse Anna Morelli su l’Unità. Era il 1979 e sembra ieri. Ma forse, invece, è oggi.

Violenza di gruppo, le famiglie degli arrestati denunciano le minacce sui social e la violazione dei profili

I familiari dei sette arrestati per la violenza di gruppo al Foro Italico di Palermo nei confronti di una ragazza di 19 anni, si sono presentati in commissariato a Palermo per denunciare le minacce nei loro confronti sui social e la violazione dei profili dei figli su tutte le più importanti piattaforme. Al momento si tratta di denunce contro ignoti.

 

Le famiglie dei sette giovani arrestati hanno chiesto alla polizia di identificare gli autori dei commenti ma anche e soprattutto chi ha realizzato i profili fake dei propri parenti. Nel mirino dei familiari ci sono anche i responsabili della composizione fotografica con tutti i sei indagati che già il giorno degli arresti, venerdì scorso, erano state pubblicate su Facebook e condivise da migliaia di persone. Le indagini passano adesso alla polizia postale che dovrà passare al setaccio tutti i social dove sono presenti migliaia di post e di commenti sulla vicenda.

La caccia al video e alle foto dello stupro di gruppo a Palermo va fermata, come pure la diffusione di contenuti fake che riguardano la vittima della violenza e i sette giovani arrestati. Il Garante della privacy è intervenuto con un avvertimento «a Telegram e alla generalità degli utenti della piattaforma, affinché venga garantita la necessaria riservatezza della vittima, evitando alla stessa un ulteriore pregiudizio connesso alla possibile diffusione di dati idonei a identificarla, anche indirettamente, in contrasto, peraltro, con le esigenze di tutela della dignità della ragazza» scrive in una nota l’autorità per la protezione dei dati personali sottolineando come «la diffusione e la condivisione del video costituiscano una violazione della normativa privacy, con conseguenze anche di carattere sanzionatorio».

Una violazione che diventa reato nel caso la diffusione dei dati personali delle persone vittime di reati sessuali secondo l’articolo 734 bis del codice penale. «Il provvedimento è stato emanato nei confronti di Telegram perché è lì che da quanto ci risulta sta girando il video, ma non è escluso che possa essere allargato ad altre piattaforme», commenta Guido Scorza del collegio del Garante della privacy. L’avvertimento del Garante è rivolto alla piattaforma Telegram dopo che in almeno una decina di gruppi chiusi su quella piattaforma è scattata la caccia al video e alle immagini dello stupro di gruppo. Una stima delle persone che da sabato hanno interagito nelle chat private supera quota centomila.

Anche la polizia postale siciliana da sabato è al alvoro per monitorare e raccogliere tutti i contenuti in rete che riguardano lo stupro di Palermo: da un lato gli investigatori si sono concentrati nella ricerca di tutti i gruppo chiusi che cercano il vedo dello stupro. Gruppi con all’interno utenti pronti a pagare moltissimo per il filmato girato da Angelo Flores e agli atti dell’inchiesta. Un secondo filone riguarda gli haters e tutte le violazioni sui profili originali degli indagati per violenza sessuale e dei loro familiari. Anche in questo caso la polizia postale sta catalogando tutti i profili fake nati con i nomi degli arrestati e gestiti da terze persone.

Violenza di gruppo a Palermo: minacciati in carcere i sei arrestati, il Dap li trasferisce d’urgenza

I sei arrestati per lo stupro di gruppo della giovane 19enne verranno trasferiti dal carcere palermitano di Pagliarelli dopo essere stati minacciati dagli altri detenuti. Da quanto si apprende, già dal primo giorno di detenzione la popolazione carceraria di Palermo si è mostrata molto ostile nei confronti dei sei giovani accusati della violenza sessuale del 7 luglio. La decisione è arrivata dopo le valutazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Non si conoscono le destinazioni dei trasferimenti. 

Sono stati gli stessi sei indagati a chiedere di essere allontanati dal carcere palermitano. Lo fanno sapere i legali, secondo i quali sarebbe arrivata anche una richiesta ufficiale da parte della polizia penitenziaria del carcere Lorusso di Pagliarelli. La richiesta da parte degli agenti potrebbe essere stata presentata perché nel carcere palermitano non ci sono tante sezioni protette e gli arrestati sono sei e non si riesce sempre a garantire il divieto di incontro imposto dall’autorità giudiziaria. Fra le ipotesi c’è quella che i sei giovani vengano distribuiti nella altre carceri siciliane.

La chef è la premiatissima Mareme Cisse ma una coppia di turisti se ne va perché è nera

“Dopo avere visto il menù la signora mi ha chiesto se per caso la proprietaria del ristorante fosse una signora neg…di colore. E alla mia conferma si è alzata dicendo che non voleva più cenare qui…” racconta la cameriera, anche lei dicolore, al titolare Carmelo Roccaro, presidente della cooperativa sociale Al Karhub che gestisce il ristorante Ginger People&Food di Agrigento, poco distante dalla Valle dei Templi. Protagonisti del grave episodio di razzismo sono due turisti italiani, sessantenni che Roccaro descrive così: “Sei entrata di fretta, con il tuo compagno, capelli brizzolati, tagliati cortissimi “alla Sinéad”, donna nostrana sulla sessantina circa. Sei stata accolta con il sorriso dalla nostra Karima, addetta di sala, giovane ragazza di seconda generazione, grande lavoratrice, che ti ha fatto accomodare dove volevi tu”.

La cameriera nera poteva anche passare, ma quando la coppia ha capito che avrebbe mangiato dalle mani, dal genio e dalla fantasia di una chef senegalese, è stato troppo. Si sono alzati e se ne sono andati senza dire una parola al titolare. La chef del locale è Mareme Cisse e negli anni scorsi ha vinto premi e ricevuto riconoscimenti prestigiosi per la sua cucina. Originaria del Senegal, nel 2012 ha raggiunto il marito in Sicilia e ha deciso di restare nella città sicula. “Ti sono venuto incontro per capire cosa stesse succedendo ma non mi hai degnato di uno sguardo e, alquanto seccata, non hai neanche risposto al mio saluto e sei andata via, così – continua Roccaro – Sono uscito e ti ho seguito mentre risalivi in macchina e andavi via, evitando di guardarmi, mentre costringevi il tuo compagno ad una improbabile inversione con l’auto”.

Non c’è rancore nelle parole del titolare, non c’è traccia di indignazione. “Io non conosco chi sei, la tua storia, i tuoi problemi e non oso nemmeno giudicarti – conclude il titolare – So solo che ho sentito, una grande tristezza nel cuore. Ieri sera ho preso consapevolezza di quanto profondo e radicato sia questo sentire che emerge dal lato oscuro delle persone”.

 

“Macché autocombustione, ci raccontano favole”. Così il chimico smentisce l’ultima ipotesi sull’incendio a Bellolampo

Quello a cui abbiamo assistito lo scorso 24 luglio è un remake, stavolta su larga scala, dell’incendio del 29 luglio del 2012, quando esattamente undici anni fa bruciò la discarica di Bellolampo. E oggi come allora c’è chi parla di autocombustione come possibile causa.

«È una boutade bella e buona di chi non vuole fare terrorismo», secondo Gioacchino Genchi, ex dirigente chimico del servizio inquinamento atmosferico al dipartimento Territorio e ambiente della Regione siciliana e dopo responsabile del servizio sicurezza alimentare al dipartimento regionale di Attività sanitarie e osservatorio epidemiologico.

Perché bisogna escludere l’autocombustione?

«Perché nessun materiale legnoso si accende a temperature inferiori a qualche centinaio di gradi».

Bellolampo sta chiedendo dei pareri ai tecnici sulla possibile autocombustione legata però a vetro e calore dovuto alle alte temperature di quei giorni.

«Il vetro per riflettere deve essere uno specchio. Per innescare una combustione bisogna raggiungere una temperatura di oltre 200 gradi e inoltre deve fungere da lente di ingrandimento, concentrando il fuoco ottico su un determinato punto. L’autocombustione potrebbe eventualmente essere prodotta da miscele di sostanze gassose che si sviluppano nei processi di decomposizione dei rifiuti».

Diamo per scontato che Bellolampo sia correttamente gestita per il controllo della produzione di biogas. È dunque improbabile?

«Sì, una corretta gestione monitora l’emissione di gas negli impianti di depurazione. E di certo gli incendi non sono partiti dalla discarica. Inoltre, parliamo degli stessi giorni di luglio di undici anni fa. È evidente che non si può parlare di autocombustione: la cosa più sorprendente è che non si sia fatto tesoro dell’esperienza precedente. E continuano a raccontarci le stesse favole».

Manca la prevenzione?

«Sicuramente».

Sui monitoraggi degli inquinanti effettuati cosa pensa?

«Insufficienti. Mi chiedo che fine abbiano fatto i camper mobili con misuratori di ossidi di azoto e benzene dell’Arpa. Ad oggi per la discarica di Bellolampo basterebbe un controllo molto semplice: moltiplicare per i coefficienti i chilogrammi o tonnellate di rifiuti andati bruciati così da ottenere il numero di inquinanti andati in aria o caduti sul suolo. Non mi sembra si sia fatto nulla di simile».

Nel 2012 lei lavorava all’assessorato alla Sanità. Cosa si fece per fronteggiare l’emergenza?

«Posso dirle che ad oggi è stato disatteso un decreto assessoriale. Già a marzo 2013 predisposi che a emergenza finita si sarebbero dovute monitorare le aree limitrofe e no di Bellolampo. Ad oggi non c’è nessun piano di monitoraggio che sfrutti le mappe che avevamo predisposto undici anni fa con il numero di campionamenti effettuati e le aziende coinvolte nel territorio. Non basta un solo campionamento fatto nell’area di Inserra; so per certo che non sono state fatte analisi su derrate alimentari, come carni e latte, e se ne parlerà la prossima settimana. Tutto ciò è inammissibile».

Anche gli incendi boschivi sono fonti di inquinanti nell’aria?

«Certo. Ecco perché l’ordinanza del Comune di Palermo è fuori luogo. Parlare di 4 chilometri dal punto di emissione di Bellolampo è un’espressione oltre che indefinita, incerta. Quanto nel 2012 bruciò la discarica, pensi che per 8 mesi facemmo monitoraggi e ogni volta che in un campione di derrata alimentare rintracciavamo anche una minima particella di inquinante, l’area da controllare veniva allargata di altri tre chilometri. Arrivammo al Comune di Terrasini».

Storia di Francesca, la donna morta in ascensore: una vita in solitudine, sola fino all’ultimo

Si sono accorti di lei solo dopo otto ore e soltanto perché c’era la necessità di rimettere in funzione l’ascensore del palazzo fermo fra due piani dalla mattina. Francesca Marchione viveva da sola ed è morta sola a terra sul pavimento di un ascensore. Aveva il telefono in tasca ma non ci sono messaggi e chiamate d’aiuto. Il cellulare non ha mai suonato, nessuno l’ha cercata dalle 7 del mattino fino al ritrovamento, intorno alle 16 di mercoledì.

Francesca aveva 61 anni, stava bene, aveva scelto di vivere al settimo piano del palazzo al civico 354 di via Oreto. Non si era mai sposata, era rimasta ad accudire i genitori dopo i matrimoni dei fratelli e delle sorelle. Era molto riservata e non aveva frequentazioni strette con i vicini di casa. Qualche parola salendo in ascensore o incrociandosi nell’androne al piano terra. «Sapevamo che faceva volontariato in parrocchia, che aiutava gli anziani a sbrigare commissioni – racconta Maurizio Sfera, residente del palazzo accanto – La incontravo sempre la mattina presto. Io tornavo dalla corsa e lei usciva diretta alla fermata del bus».

Amava la lettura, i pochi condomini con cui aveva confidenza raccontano come le si illuminassero gli occhi quando parlava di libri. «Ne divorava tantissimi, saliva in ascensore con le buste piene, leggeva di tutto – racconta Giusy, dirimpettaia della 61enne – Mi sorrideva e mi diceva: sono il mio unico lusso». La sua libreria preferita erano le Paoline di fronte alla cattedrale.

Sarà l’autopsia disposta dalla procura di Palermo a stabilire orario e cause della morte della donna di 61 anni. Le indagini affidate ai carabinieri della compagnia di Piazza Verdi stanno ricostruendo le ultime ore di vita della vittima. Non è ancora stato accertato se l’ascensore, un modello con le porte che si aprono verso l’interno, si sia bloccato per un’interruzione di corrente o perché la donna, forse in stato confusionale, ha aperto le porte fra il secondo e il primo piano.

Quattro residenti del palazzo, svegli alle 7 del mattino nell’orario in cui si presume che la 61enne sia rimasta bloccata, hanno confermato che la luce è mancata per alcuni minuti a quell’ora. E-distribuzione interpellata sul punto si trincera dietro un «nessun commento sull’episodio». Da quanto si apprende ci sarebbe stata una ricognizione sui distacchi in quella zona ma a quanto pare effettuata sulla base delle segnalazioni degli utenti. Che per un blackout di pochi minuti di prima mattina potrebbero anche non essere arrivate. Ad oggi poi la posizione dell’azienda responsabile della distribuzione non chiarisce il giallo.

Quello che è certo invece è la morte di una donna sola. Anche con i familiari i rapporti si erano diradati, tanto che gli inquirenti hanno avuto qualche difficoltà nel rintracciarli. Mercoledì pomeriggio erano tutti lì disperati per una morte assurda. «Possibile che nessuno si sia accorto di nulla, che nessuno l’abbia cercata che nel palazzo si sia atteso così tanto tempo – si chiedeva il fratello Salvo – Non sappiamo ancora cosa sia accaduto:. Vogliamo sapere cosa è realmente successo».

Su un particolare tutti i condomini sono d’accordo: la donna non ha avuto il tempo o la lucidità di premere il pulsante d’allarme all’interno dell’ascensore. I tecnici della manutenzione subito dopo il ritrovamento del corpo hanno testato il sistema e l’allarme era regolarmente in funzione. Altro punto inconfutabile sono le due porte interne dell’impianto di sollevamento trovate aperte verso l’interno. Di sicuro sono state aperte dalla 61enne, ma non è ancora stato chiarito se dopo il blocco dell’impianto o durante il suo funzionamento. In questo caso l’apertura delle due antine avrebbe bloccato l’ascensore, fermandolo fra i due piani.

Sicilia, trovato vivo il pilota dell’elicottero scomparso

(ANSA) – PALERMO, 26 LUG – È stato ritrovato ed è vivo il pilota dell’elicottero in servizio antincendio nel Siracusano con cui si erano interrotti i contatti. Sarebbe già stato prelevato per essere portato in ospedale. Lo conferma l’assessore regionale al Territorio Elena Pagana. Il pilota dell’elicottero “Falco 8” con cui si erano persi i contatti, Gianfranco Gurrisi, è stato trovato nei pressi della riserva di Pantalica, dagli uomini del corpo Forestale della Regione siciliana guidati dall’ispettore Filadelfo Brogna. “L’importante è che sia vivo – spiega l’assessore Pagana -. È in macchina con l’ispettore del Corpo Forestale. A quanto pare il velivolo ha avuto un’avaria ma lui è riuscito ad atterrare bene. Di questo sono felice. Soprattutto dopo giorni come questi in cui il sistema ha dovuto lavorare sotto uno stress pazzesco e senza sosta, non si è fermato nessuno un attimo. Dovremmo prestare attenzione al valore che c’è negli operatori che combattono in questi momenti”. (ANSA).

Via ai lavori per la diga di Pietrarossa: fine di uno scandalo lungo tre decenni

Per anni è stata la regina delle incompiute, tra le campagne che circondano i Comuni di Agira, Aidone e Mineo, tra Catania ed Enna. Adesso la Regione si appresta a mettere la parola fine allo scandalo che dura da tre decenni: i lavori per la diga di Pietrarossa, tra le oltre cento opere incompiute della Sicilia, riprenderanno. Una storia fatta di contenziosi, burocrazia, posizioni sovrapposte in difesa del diritto all’acqua o a quello dell’interesse archeologico. Già pensata alla fine degli anni ’60 in un articolato sistema idrico del territorio messo a punto dall’allora Cassa del Mezzogiorno, con la prima pietra posata nel 1989, la vicenda della diga Pietrarossa, dall’omonimo fiume che l’attraversa, volge finalmente alla sua conclusione. Si farà, anzi si completerà perché la gran parte dei lavori erano già stati realizzati, ma sospesi nel 1997.

Il Dipartimento acqua e rifiuti della Regione ha infatti sottoscritto il contratto con il raggruppamento di imprese costituto dalla Cooperativa Edile Appennino, Vittadello, Intercantieri, Cosedil e il consorzio Ciro Menotti che permetterà il completamento della diga. I lavori riprenderanno così entro la fine di luglio e termineranno, in linea con le scadenze fissate tra le opere inserite nel Pnrr, per il 31 gennaio 2026. I benefici della diga in funzione impatteranno sulla piana di Catania portando ad irrigare 17.500 ettari a fronte dei sei mila attuali. La diga Pietrarossa appare per la prima volta nello schema idrico tra i più importanti del Sud Italia nel 1963 insieme alla diga Don Sturzo-Ogliastro e Dittaino. Il progetto viene approvato dall’allora Consiglio dei lavori pubblici nel 1983. I lavori con uno stanziamento di allora 145 miliardi delle vecchie lire iniziano nel 1989, ma nel 1993 avviene il primo stop al manifestarsi di una frana nella spalla destra della diga. Contemporaneamente durante i lavori vengono ritrovati i resti archeologici di una statio capitoniana del IV secolo d.C., un punto d’appoggio presenti nell’Isola, utili a mercanti e viaggiatori. Per le associazioni a difesa dell’ambiente, in prima linea Legambiente, si tratta di un ritrovamento di straordinaria importanza e così l’area viene posta sotto sequestro dal tribunale di Enna. Nel 1997 l’assessorato regionale dei Beni culturali appone il vincolo archeologico che però verrà annullato nel 2000 dal Tribunale delle Acque pubbliche giudicando l’aspetto archeologico secondario rispetto a quello della diga.

I lavori però non riprendono e si arriva al 2017 quando alla Regione Siciliana con il governo Gentiloni si chiede una decisione precisa: o si termina la diga o la si annulla creando una breccia. La Regione decide così di proseguire i lavori e nel 2018 il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio stanzia 60 milioni di euro. Nel 2022 il neo presidente della Regione Renato Schifani approva formalmente il progetto della commissaria straordinaria Ornella Segnalini con un finanziamento totale di 82 milioni di euro e con la sistemazione della statio romana di Casalgismondo e un apposito museo virtuale.

A commentare lo step atteso da tanti, troppi anni per il completamento della diga incompiuta, è stato anche il vicepremier Matteo Salvini: «Un intervento di eccezionale attualità in un periodo di siccità come quello che stiamo vivendo, una grande diga vigilata dal Mit».

“Intanto i nostri ragazzi muoiono per il crack e nessuno se ne occupa”

«Mentre in via Libertà si procura la coca a Miccichè, a Ballarò i nostri ragazzi muoiono di crack e nessuno se ne occupa. Chi spaccia droga vende morte ai nostri figli. Significa andare a braccetto con la mafia». Francesco Zavatteri è il padre di un giovane morto di crack a 19 anni nella propria camera, a Palermo, appena nove mesi fa.

Per i magistrati il centro dello spaccio era Villa Zito.

«È grave che un imprenditore entri in un giro del genere così come far diventare il drogarsi una consuetudine dell’umanità. E’ quanto emerge dalle parole dei protagonisti di questa brutta storia . Conosco Mario Di ferro da tanti anni e da un punto di vista umano non può che dispiacermi. Da un punto di vista etico, avendo perso un figlio a causa del crack, condanno profondamente la sua condotta. Mi fa ancora più rabbia l’avere letto che la procura di Palermo ha intercettato un contatto diretto di Di Ferro con un mafioso che lo riforniva. Dobbiamo ripetere fino allo sfinimento che droga uguale mafia».

Miccichè ha detto: anche se sniffassi coca sarebbero fatti miei.

«Se lui fosse un privato cittadino si potrebbe compatire pensando che ha un suo problema irrisolto. Siccome stiamo parlando di una figura istituzionale importante e rappresentativa, ritengo che sia estremamente grave un’esternazione di questo tipo».

L’Onorevole ha aggiunto che non farà mai il test antidroga.

«Lui si è sempre sentito una sorta di padreterno. Vuoi perché era uno dei fedelissimi di Berlusconi, vuoi per indole. Ascoltare certe frasi è un pugno nello stomaco per chi ha perso un figlio ucciso dalla droga».

Miccichè definisce “demagogia” il test.

«Demagogia? Chi decide di fare politica va a rappresentare i cittadini. Deve essere una persona integerrima. Dietro allo spaccio di droga c’è la mafia».

Lei ha trasformato la sua tragedia in una spinta per salvare altri ragazzi. In che contesto si inserisce adesso questa vicenda?

«Ci sono minorenni che acquistano le sostanze, ragazzine che si prostituiscono il crack. Giovani che moriranno o diventeranno schizofrenici. Quando il ragazzino va dallo spacciatore per la marijuana, spesso gli danno la coca in omaggio instaurando un rapporto di fiducia perverso. E poi purtroppo c’è questo gioco a distogliere l’attenzione».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che ogni giorno trovano 5 chili di qua, 10 chili di là e spesso sono delle cose civetta. Gli spacciatori stessi fanno trovare un certo quantitativo di droga in modo da distogliere l’attenzione da altri mercati».

Lei ha organizzato un convegno all’università sull’emergenza crack . Le istituzioni c’erano?

«Avevo mandato una mail a tutti i rappresentanti delle istituzioni cittadine, a tantissimi politici e a tutti i capigruppo all’Ars. Non è venuto nessuno. Solo uno ha risposto».

Aveva invitato Miccichè?

«Certo e non ha risposto».

Cosa le fa più male?

«Il silenzio. Veicolare una corretta informazione significa attuare un’azione contro la mafia per tutelare i nostri figli da un male che entro 5-10 anni causerà una strage. A Palermo è un fenomeno sempre più diffuso. I primi consumi avvengono già a 13 anni. Invece ci si preoccupa di fare sembrare la città bellissima per la visita del presidente della Repubblica e del re di Spagna. Palermo è proprio una città girata al contrario».

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