Petrolio ancora su, diesel alle stelle. A rischio le strategie anti-inflazione. E la Francia pensa di tassare gli extraprofitti

Sale, sale ancora il petrolio complicando il lavoro dei banchieri centrali e dei governi alle prese con l’inflazione. Il Brent e il greggio Usa avanzano in coppia macinando nuovi record: il West Texas ha messo a segno un rialzo del 30% da giugno, il greggio del mare del Nord è al top da dieci mesi oltre quota 95 dollari. Per la gioia di Putin che ha inaugurato con successo la rotta delle petroliere che da Murmansk passando per il mare di Barents trasporta l’oro nero verso i porti cinesi. E per quella dell’alleata Arabia Saudita che festeggia quotazioni in linea con  i faraonici piani ri investimento del principe Mohammed Bin Salman. Per questo nessuno si fa illusioni in vista del discorso che il ministro del petrolio saudita, cugino di MBS, terrà nel pomeriggio. Anche perché l’aumento del barile è solo una parte del problema. Probabilmente il meno importante.

Petrolio in rialzo ma il vero problema è il diesel

La vera emergenza, infatti, non riguarda il greggio, bensì la penuria di diesel, schizzato oltre i 140 dollari in Usa, sopra del 60% rispetto ai prezzi di inizio estate in Europa. E potrebbe essere solo l’inizio, ammoniscono gli esperti. L’Occidente, ancora una volta, rischia di pagare a caro prezzo la scelta di chiudere anzitempo le raffinerie più inquinanti senza costruirne di nuove. Anche perché gli impianti ancora in attività si sono concentrati nella produzione di benzina e di jet fuel per gli aerei snobbando il diesel, il carburante che fa viaggiare i camion. Un bel guaio perché, nonostante le sanzioni, il diesel dipende ancora in larga misura dalle raffinerie russe che già hanno fatto sapere che di qui a fine anno limiteranno le forniture.

Salgono i titoli oil ma la Francia studia come tassare gli extraprofitti

Insomma, il caro petrolio rischia di essere una componente stabile del prossimo scenario di mercato. Una congiuntura che sta portando del bene all’Eni, che oggi ha staccato un acconto dividendo di 0,24 euro pur restando sopra i 15 euro, piuttosto che a Tenaris +0.9% e a Saipem +0.40%. Ma a frenare gli entusiasmi, per la verità, ci pensa l’esempio dei cugini francesi, da sempre guardati con sospetto salvo che, come in questo caso, non si tratti di imporre un vincolo al caro benzina. 

Il ministro dell’economia transalpino, Bruno Le Maire, ha avanzato l’idea di mettere una tassa sugli extraprofitti delle raffinerie transalpine. Il ministro del Bilancio Thomas Cazenove ha rincarato la dose anticipando un “contributo di solidarietà” per il settore. Nel frattempo TotalEnergies, il colosso in cui lo Stato detiene una quota strategica del 15% ha assicurato che la sua decisione di mettere un tetto al costo della benzina a 1,99 euro al litro, assunta a marzo, sarà prorogata oltre la scadenza del 31 dicembre ed estesa all’intera rete dei suoi 4.400 distributori (rispetto ai 2.600 attualmente coinvolti). Un’operazione immagine che, nota Mario Seminerio, il gruppo può permettersi “perché è anche produttrice oltre che distributrice, e dispone di corposi margini globali per finanziarla”. Chissà se l’esempio, in piena vague populista, verrà seguito anche dalle nostre parti. 

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Btp Valore, il premio extra finale di fedeltà è dello 0,5%. L’esenzione dalle imposte di successione

Il Ministero dell’economia e delle finanze comunicato che il premio extra finale di fedeltà relativo alla seconda emissione del Btp Valore è pari allo 0,5% del capitale investito dagli investitori che lo acquisteranno durante i giorni di collocamento, da lunedì 2 a venerdì 6 ottobre 2023 (fino alle ore 13.00) e lo conserveranno fino alla scadenza dei 5 anni.

II Btp Valore di ottobre 2023 è caratterizzato da cedole nominali pagate ogni trimestre. I risparmiatori individuali cui si rivolge questa famiglia di titoli di Stato riceveranno infatti una cedola ogni tre mesi, calcolata sulla base di un tasso prefissato per i primi 3 anni, che aumenta per i successivi 2 anni di vita del titolo (il cosiddetto meccanismo step-up). Da ricordare il Btp a tasso fisso con scadenza ad aprile 2028 rende oggi il 3,91% al lordo (3,46%) al netto, mentre il titolo di Stato italiano decennale rende il 4,49%.

I tassi cedolari minimi garantiti saranno comunicati il prossimo 29 settembre, mentre quelli definitivi saranno annunciati alla chiusura del collocamento, il 6 ottobre e non potranno comunque essere inferiori ai tassi cedolari minimi garantiti.

Come sottoscrivere il Btp Valore

I risparmiatori possono sottoscrivere il Btp Valore attraverso il proprio home banking, se abilitato alle funzioni di trading online, o rivolgendosi alla banca o all’ufficio postale presso cui si possiede un conto corrente e il conto deposito titoli.

Il titolo sarà collocato sulla piattaforma Mot di Borsa italiana alla pari (prezzo uguale a 100), senza vincoli né commissioni. Prevista la consueta tassazione agevolata per i titoli di Stato pari al 12,5% e l’esenzione dalle imposte di successione, su cedole e premio fedeltà. L’investimento minimo è pari a 1.000 euro e non sarà applicato alcun tetto massimo «assicurando la completa soddisfazione degli ordini, salvo facoltà da parte del Ministero di chiudere anticipatamente l’emissione», spiega il Mef nella sua nota. (riproduzione riservata)

Mutui, variabile al 7% e fisso oltre il 6%. E l’auto a rate costa 11mila euro in più

Dopo gli aumenti dei tassi di interesse sui mutui da parte della Bce (Banca Centale Europea) che sono lievitati dal 4,50% al 4,75%, c’è molta preoccupazione per quel che potra accadere ai mutui variabili come ha denunciato la Fabi (Federazione Autonoma Bancari Italiani): il loro valore potrebbe schizzare “verso il 7% dallo 0,6% di fine 2021”.

Gli aumenti sulle rate

Le percentuali previste si traducono in una mazzata per le tasche degli italiani: ad esempio, per un prestito di 20 anni da 150mila euro, “la rata mensile sarà di 1.180 euro, ben 515 euro in più (+77,4%) rispetto a quella che si sarebbe ottenuta due anni fa”. Un salasso, non c’è altra parola per definirlo: la Fabi ha analizzato i nuovi costi dopo il rialzo deciso dalla Bce. In questo modo, chi in passato sborsava mediamente 500 euro mensili oggi ne deve sborsare 875 euro, “ovvero 375 euro in più”, sottolinea la Fabi. Visto l’andazzo, le previsioni per il prossimo futuro sono nere perché “è molto probabile che, alla luce della decisione di oggi, le rate dei vecchi mutui a tasso variabile possano salire ancora”.

Gli aumenti sui mutui fissi

Se sui vecchi mutui a tasso fisso non c’è ancora la spada di Damocle degli aumenti, quelli nuovi “sono passati da un interesse medio di circa 1,8% anche fino a oltre il 6%”, con rate mensili che possono essere “anche più che raddoppiate”, spiega la Fabi. Un altro esempio riguarda una forma di mutuo molto comune in italia è quello da 200 mila euro della durata di 25 anni: ebbene, se si dovesse applicare il 6% in più rispetto ai valori odierni le rate mensili ammonterebbero a 1.341 euro mentre un prestito da 100mila euro, al 5,6%, si dovrebbe pagare 627 euro.

Il salasso si evince anche sui consumi: chi decide di acquistare un’auto a rate con finanziamenti di 10 anni dovrà pagare quasi 11mila euro in più rispetto al passato con il tasso medio che dall’8,1% schizzerebbe verso il 14,25%. Discorso simile per gli elettrodomestici: se si vuole acquistare una lavatrice del valore di 750 euro bisognerà sborsare fino 157 euro in più (+16,7%) per un finanziamento della durata di 5 anni.

Il debito delle famiglie italiane

La Fabi mette in luce la fotografia attuale che c’è in Italia: le famiglie che hanno debiti sono circa 6,8 milioni, in pratica una su quattro. Tra loro, quasi tre milioni e mezzo sono indebitate perché devono acquistare la casa. Secondo gli ultimi calcoli del mese di luglio 2023, il valore complessivo dei mutui era pari a circa 425 miliardi di euro tra cui, quasi un terzo (140 miliardi)n riguardava quelli a tasso variabile. Le banche hanno così versato circa 250 miliardi di euro di prestiti tra quelli personali e credito al consumo: questi valori, sebbene simili alla situazione di tre anni fa, vedono un certo rallentamento negli ultimi tempi a causa dell’influenza negativa che riguarda l’aumento dei tassi d’interesse.

La nuova missione di «Supermario» Draghi (ed ecco perché ha accettato l’incarico da von der Leyen)

Raccontano che Ursula von der Leyen l’abbia chiamato dopo aver letto il suo articolo sull’Economist, nel quale Mario Draghi lanciava l’allarme sulle sorti dell’Europa e avvisava che l’Unione non può pensare di tornare alle regole del passato. Perché correrebbe il rischio di non avere futuro.

Ed è al termine di quel colloquio che la presidente della Commissione ha proposto all’ex presidente della Bce di stilare un rapporto sul «futuro della competitività europea», a fronte delle sfide sul lavoro, l’inflazione e l’ambiente commerciale. Draghi ha accettato l’incarico e ha atteso che von der Leyen lo ufficializzasse ieri, nel suo discorso all’Europarlamento sullo stato dell’Unione.

All’atto dell’annuncio, tutti si sono dapprima concentrati sul ritorno in campo di «Supermario», riaprendo per qualche ora il dibattito su suoi possibili nuovi incarichi. Boatos privi di fondamento: Draghi non è in corsa né per la guida della Commissione né per la presidenza del Consiglio europeo, ruoli attorno ai quali si starebbe peraltro costruendo a Bruxelles un consenso attorno alle figure della stessa von der Leyen e dell’ex premier olandese Rutte. Così, dinnanzi al profluvio di dichiarazioni positive, ha commentato con la solita ironia: «Tutti pensano di avermi tolto finalmente dai piedi…».

Il ritorno a un ruolo attivo dopo l’esperienza di Palazzo Chigi, è legato piuttosto a una mission dai contorni così ampi da apparire come un consulto per un paziente con gravi problemi. La pandemia e la guerra hanno prodotto la fine di un’era. Secondo Draghi «l’Unione di prima non c’è più», perché hanno ceduto i pilastri su cui si reggeva la sua prosperità: «L’America per la sicurezza, la Cina per l’export, la Russia per l’energia». Il dramma è che l’Unione di dopo non c’è ancora, e la prospettiva di un suo allargamento ai Paesi dei Balcani e all’Ucraina, senza aver proceduto alle riforme, potrebbe portare a un esito fatale.

Si apre un periodo «complicato, molto complicato», perciò ha accolto la proposta, a fronte delle «importanti sfide che attendono l’Europa». Nell’intervento sull’Economist, Draghi aveva descritto l’esigenza di dotare l’Ue di «nuove regole e più sovranità condivisa», indispensabili per continuare a competere a livello globale e affrontare le crisi con risposte rapide. E se la vecchia Unione «non c’è più», allora non si può nemmeno tornare al vecchio Patto di Stabilità: «Sarebbe il risultato peggiore possibile». A tale proposito, fonti diplomatiche ritengono che «i Paesi europei a questo punto potrebbero rallentare i tempi del negoziato sul Patto, in attesa del report» dell’ex presidente della Bce.

Si vedrà. Una cosa è certa, von der Leyen gli ha dato carta bianca. E Draghi si è impegnato a redigere il rapporto in vista della prossima legislatura europea, che si preannuncia decisiva. La presidente della Commissione, se venisse confermata, vorrebbe utilizzare il contributo di «una delle più grandi menti economiche europee» come base per le decisioni del futuro governo dell’Unione. D’altronde il rapporto affronterà «in modo orizzontale» le criticità più spinose: dalle regole di bilancio al commercio, dall’autonomia strategica alla difesa comune.

In questa nuova veste, Draghi tornerà a viaggiare per le cancellerie europee. La sua tesi è che da soli i Paesi dell’Unione non possano più reggere le sfide globali e che senza un rafforzamento di regole e istituzioni comunitarie, il Vecchio Continente diverrebbe marginale nello scenario mondiale, condannandosi all’irrilevanza. La ridefinizione delle politiche di bilancio — come ha scritto la scorsa settimana — garantirebbe invece finanze credibili e permetterebbe agli Stati di reagire a choc imprevisti.

Serve che l’Europa intera prenda in tempo coscienza del cambio epocale in atto. E von der Leyen intende sfruttare l’autorevolezza di chi a Bruxelles viene definito «un Henry Kissinger più giovane». Un europeo influente che può aiutare con la sua moral suasion ad «aggiustare i tubi rotti». Un italiano che guarda ai processi politici ed economici nel suo complesso, e che pertanto non può avere «occhi di riguardo» per il suo Paese, come ha auspicato in modo irrituale Giorgia Meloni.

Poi, certo, Roma e la Roma restano il luogo degli affetti e della passione calcistica. Ancora l’altra sera in un ristorante della Capitale lo si poteva vedere insieme ad alcuni amici: tra questi c’era un compagno di liceo, Massimo Longo, con un passato da dirigente socialista. Pare che Draghi presti sempre particolare attenzione alle sue analisi di politica interna. Per la politica economica fa da sé.

Cina, cade l’export, gli Usa hanno avviato il divorzio da Pechino. Borse asiatiche in rosso

I dati macro sono gli indicatori più importanti cui stanno guardando i mercati. E se ieri il settore servizi Usa, in tonica crescita, ha mandato Wall Street in rosso per timori di ulteriori rialzi dei tassi, giovedì 7 settembre l’Asia viaggia in netto calo a causa del crollo dell’export in Cina, soprattutto nei confronti degli Usa. Un chiaro indicatore che le divergenze politiche fra i due Paesi si stanno allargando.

Alle ore 7:30 italiane il Nikkei perde lo 0,66%, Hong Kong quasi l’1% e Shanghai lo 0,7%, mentre i futures sul Nasdaq indicano un calo dello 0,33%. 

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Cina, export in deciso calo 

Le esportazioni cinesi sono diminuite dell’8,8% su base annua ad agosto 2023, il quarto mese consecutivo di calo, mentre le importazioni sono scese del 7,3%, il settimo calo quest’anno.

Sia le vendite che gli acquisti si sono ridotti meno del previsto, ma l’economia cinese rischia di non raggiungere l’obiettivo di crescita di Pechino del 5% circa per il 2023, in un contesto di peggioramento della crisi immobiliare, consumi deboli e pressione persistente sul settore manifatturiero.

Cina, cade il surplus commerciale 

Il surplus commerciale della Cina è sceso a 68,36 miliardi di dollari ad agosto 2023 rispetto a 78,65 miliardi di dollari nello stesso periodo dell’anno precedente, al di sotto delle previsioni di mercato di 73,9 miliardi di dollari.

Si è trattato del surplus commerciale più basso da maggio, con le esportazioni diminuite più delle importazioni in un contesto di domanda persistentemente debole sia da parte interna che estera. Le esportazioni si sono ridotte dell’8,8% su base annua, il quarto mese consecutivo di calo, migliore del consenso del mercato che prevedeva un -9,2%, mentre le importazioni sono diminuite del 7,3%, il sesto mese consecutivo di discesa, rispetto al consenso di un calo del 9%.

Considerando i primi otto mesi dell’anno, la Cina ha registrato un surplus commerciale di 553,4 miliardi di dollari, con le esportazioni in contrazione del 5,6% mentre le importazioni sono diminuite del 7,6%

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Gli Usa fanno decoupling dalla Cina: import al palo

Secondo l’US Census Bureau, la quota cinese di importazioni di beni negli Usa è scesa al livello più basso dal 2006 nei 12 mesi conclusi a luglio. Secondo i nuovi dati, la quota di merci importate provenienti dalla Cina è stata in media del 14,6% nello stesso periodo. Si tratta di un calo rispetto al picco del 21,8% registrato nei 12 mesi fino a marzo 2018, poco prima che l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump avviasse una guerra commerciale con il paese asiatico.

Paesi come il Messico e il Vietnam hanno beneficiato del cambiamento, mentre le aziende americane riorganizzano le catene di approvvigionamento e gli Stati Uniti tentano di ridurre la dipendenza dell’economia dalla Cina.

Il settore dei servizi Usa resta tonico

L’ISM Services Pmi è balzato inaspettatamente a 54,5 ad agosto 2023, indicando la crescita più forte nel settore dei servizi da sei mesi, rispetto al 52,7 di luglio e alle previsioni di 52,5. Aumenti più rapidi sono stati osservati nell’attività commerciale (57,3 contro 57,1), nei nuovi ordini (57,5 contro 55), nell’occupazione (54,7 contro 50,7) e nelle scorte (57,7 contro 50,4).  Anche le consegne dai fornitori sono aumentate (48,5 contro 48,1).  (riproduzione riservata)

Fed, Powell: “Per ridurre inflazione pronti ad alzare i tassi”

La Fed è determinata a far ulteriormente calare l’inflazione negli Stati Uniti. “Siamo preparati ad alzare ancora i tassi di interesse, se necessario, e a mantenerli a livelli restrittivi fino al raggiungimento dell’obiettivo”, ha dichiarato il presidente dell’istituzione monetaria, Jerome Powell. “Il lavoro della Federal Reserve è riportare l’inflazione al 2%”, ha aggiunto, sottolineando come al momento, nonostante il calo, sia al 3,3% e quindi, ha concluso “troppo alta”.

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Powell ha precisato che, dati i passi già compiuti, in particolare in termini di rialzo dei tassi “alle prossime riunioni saremo nella posizione di procedere con cautela“. Secondo il banchiere centrale “ci si può attendere che raggiungere in maniera sostenuta l’obiettivo del 2% di inflazione richieda un certo periodo di crescita economica sotto le medie e storiche, così come una qualche moderazione delle condizioni del mercato del lavoro”. Tuttavia “siamo attenti ai segni che l’economia potrebbe non rallentare come prevediamo”. E in particolare i recenti dati sulle spese comuni per consumi si sono rivelati “robusti”.

“L’inflazione al 2% “è e resterà il nostro obiettivo”, ha poi chiarito Powell. “Siamo impegnati a raggiungere e mantenere una linea monetaria che sia sufficientemente restrittiva per riportare l’inflazione a quel livello nel corso del tempo. Ovviamente – ha riconosciuto – è impegnativo“. Quindi al direttorio della Fed “procederemo con attenzione quando decideremo se inasprire ancora o, invece, mantenere la linea di politica monetaria invariata e attendere ulteriori dati”.

Il capo della Fed ha usato l’immagine del “navigare in base alle stelle con un cielo nuvoloso”. E ha spiegato che ripristinare la stabilità dei prezzi è cruciale “per raggiungere entrambi gli aspetti del nostro mandato duale”, che prevede il controllo dell’inflazione e, secondo aspetto, favorire la massima occupazione. “Ci servirà la stabilità dei prezzi per ottenere un periodo sostenuto di forti condizioni del mercato del lavoro – ha concluso – a beneficio di tutti”.

Wall Street ha reagito a questi propositi virando a leggeri ribassi, mentre il dollaro è scattato al rialzo risalendo ai massimi da oltre due mesi, con l’euro sotto quota 1,08 sul biglietto verde.

Quanto costa avere un figlio in Italia

645 euro al mese. Tanto costerebbe ad ogni famiglia italiana un figlio, dalla nascita fino al compimento dei 18 anni. A dirlo è la Banca d’Italia, sulla base di una rielaborazione di dati Istat raccolti tra il 2017 e il 2020 su nuclei composti da due adulti e uno o più minori, cioè una famiglia italiana standard. La cifra comprende acquisti di beni e servizi destinati esclusivamente ai figli, fra cui spese alimentari, per i trasporti e per la casa. Buona parte dei costi riguarda il tempo libero come hobby e sport, seguiti da istruzione (cioè nidi e scuole), abbigliamento e salute, per un totale che si attesta ad un quarto del reddito medio delle famiglie. Quasi una rata del mutuo, verrebbe da dire, se non fosse che anche quelle continuano a crescere, proprio come i figli.

Nel 2020 la spesa è stata leggermente inferiore, 580 euro, ma solo per le restrizioni dovute alla pandemia, che hanno comunque limitato spostamenti e spese relative al tempo libero. Per il resto, le voci più “pesanti” sono legate ai prodotti dell’infanzia come i pannolini e, soprattutto, gli asili nido, tuttora insufficienti.

Sempre meno figli e sempre più “cari”

Crescere un figlio nel nostro Paese diventa sempre più costoso. Secondo Moneyfarm, il mantenimento di un figlio da 0 a 18 anni comporterebbe una spesa tra i 96.000 e i 183.000 euro. Cifre cui fanno eco quelle dell’Osservatorio di Federconsumatori, che ha stimato un costo medio di 175.642 euro, con una media di oltre 7.000 euro l’anno. Analizzando circa 150 voci, lo studio ha rilevato come, con l’aumentare dell’età, crescano anche le spese. Se fino ai tre anni si spendono per un figlio tra i 10.000 e i 25.000 euro, dai 4 ai 5 anni la cifra va dai 10.000 ai 27.000, dai 6 agli 11 si aggira tra i 28.000 e i 48.000 euro e dai 12 ai 18 anni varia tra i 45.000 e i 74.000 euro.

Entrando più nel dettaglio, per ogni fascia di età ci sono tipologie di spese che incidono più di altre. Tra i 6 e gli 8 anni, ad esempio, pesano attività sportive, mensa scolastica, campi estivi, ma anche le visite mediche (con importi fra 420 e 900 euro) e attività doposcuola (fra 510 e 5.400 euro). Per la fascia d’età 15-18 anni salgono le spese sportive (8.000 euro), cui vanno ad aggiungersi trasporti (600 euro), lezioni di lingua, abbigliamento, vacanze, dispositivi elettronici, libri scolastici, paghette (1.164 euro), etc.

I costi da Nord a Sud

Tornando a dati più macro, la spesa per crescere un figlio può variare a seconda dell’area geografica, sulla base del diverso costo della vita: il costo mensile è più alto al Nord, mentre è più basso al Sud e nelle isole. I numeri parlano chiaro: se la media italiana riporta 645 euro al mese, al Nord siamo a 714, per il Centro a 707, al Sud 512, con una forbice molto ampia fra famiglie abbienti e famiglie povere: 688 euro contro 198 al mese per figlio.

Primo anno di vita

Se il quadro potrebbe essere già esauriente con i dati appena elencati, altri elementi si aggiungono analizzando quanto costa un figlio nel primo anno di vita. Sempre secondo lo studio Moneyfarm, fra i costi di mantenimento di un figlio nel primo anno di vita bisogna considerare anche quelli che riguardano la preparazione alla nascita che vanno dai i 5.600 ai 19.300 euro. Questa tipologia dispese presenta molte variabili, differenti a seconda di quanto una famiglia voglia e possa sostenere determinate spese.

Pur considerando che, a differenza di altri paesi europei, in Italia l’assistenza medica negli ospedali pubblici è coperta dal Sistema Sanitario Nazionale, una coppia può decidere di sostenere privatamente alcune visite, per cui il volume di spesa stimato dipende anche dalle soluzioni che ogni famiglia decide di adottare. Dai test prenatali al corso preparto, dal corredo agli accessori, le spese possono subire variazioni notevoli in base alle diverse scelte. Tra le prime spese che i neo genitori devono sicuramente sostenere, ci sono quelle necessarie nei primi mesi di vita di un bambino, fra cui, ad esempio, passeggino (o culla portatile, o ancora passeggino e seggiolino auto), biberon, vaschetta per bagnetto, fasciatoio, tutine, body o intimo (che va cambiato ogni tre mesi circa), pannolini, salviette e altro.

Voci che incidono

Un raffronto interessante tra i diversi costi di un figlio nelle le varie regioni d’Italia si può realizzare prendendo come riferimento altre due voci di spesa significative nei primi anni di vita di un bambino, come l’asilo nido e la baby-sitter. Incrociando tali dati con quelli dell’Unione Nazionale Consumatori relativi all’aumento del costo della vita nel 2022, si ha la conferma di come nel Nord la spesa per un figlio risulti maggiore che in altre parti d’Italia.

Secondo altri dati, provenienti da una ricerca di Altroconsumo, il costo medio di un asilo privato a tempo pieno si aggira in Italia attorno ai 620 euro mensili, arrivando a Milano a 756 euro al mese (con un aumento rispetto alla media nazionale del 22%, che scende al 21% per i nidi di Bologna). Gli asili meno cari si trovano al Sud: a Palermo per un’ora nel nido si pagano circa 2,09 euro per 10 ore settimanali, a Napoli ci si attesta sui 2,75 euro, contro i 3,84 euro di Milano).

Trend costante

Alla luce di quanto visto, possiamo anche capire come non sia un caso che in Italia si facciano sempre meno figli. Nel 2020 sono nati 404.892 bambini, 15.000 in meno rispetto al 2019. Secondo il bollettino Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente 2020”, poi, il trend della denatalità è proseguito anche nel 2021. C’è da dire comunque che la fase di calo in Italia è iniziata nel 2009. Da allora e fino al 2019 si è registrato un calo medio costante annuo del 2,8%.

Borse 14 agosto: Meloni rivela che “sulle banche ho deciso”. La Cina trema perché il mattone è al collasso

L’economia cinese, ha detto Joe Biden, è “una bomba ad orologeria”. A confermare l’allarme arriva stamane l’ennesimo tracollo del gigante immobiliare Country Garden, già considerato dalle autorità il modello da seguire per la ripresa del mattone. Al contrario, la società, dopo aver mancato il rimborso di una rata di un prestito in dollari di soli 22 milioni, ha annunciato stamane la sospensione degli scambi su 11 prestiti sul mercato interno. Il titolo vale ormai poco più di zero. Qualcosa di più di un default agli occhi del mercato perché impressiona il mancato sostegno all’economia da parte del governo. L’effetto immediato è un nuovo calo dell’indice delle blue chips -1,1% (-3,4% la settimana scorsa) ma anche il calo del petrolio (brent a 86 dollari), il primo dopo sette settimane e la ripresa del dollaro.

Eurostoxx in ribasso, riflettori su Telecom

La crisi del mattone cinese è l’ultimo dato che giustifica l’apatia dei mercati del Vecchio Continente. Pochi gli operatori che oggi rinunceranno all’appeal della spiaggia per il richiamo dello Stock Exchange.

Le borse dell’Europa dovrebbero aprire in ribasso. I Future dell’EuroStoxx50 segnano -0,3%. Domani il mercato azionario di Milano è chiuso. Mercoledì esce la seconda lettura del PIL del secondo trimestre della zona euro, venerdì sarà annunciata la lettura finale dell’inflazione di luglio.

L’intervento sulle banche l’ho deciso io”. Così la premier Giorgia Meloni scende a difesa di un provvedimento i cui effetti, a giudicare dalle prime reazioni, potrebbero però essere però sensibilmente diluiti a settembre, al momento della conversione in legge.

La borsa di Milano -1% è scesa venerdì dopo due sedute di recupero che l’avevano portata ieri sui livelli precedenti l’annuncio della tassa straordinaria sulle banche.

In ribasso anche l’Indice EuroStoxx 50 -1,2%. In Europa, questa settimana sono scese le società delle materie prime (Stoxx -4,5%), sono salite quella salute (Stoxx +3,3%).

Sempre sotto i riflettori Tim in attesa degli sviluppi della partita sulla Rete. Il nodo principale riguarda i rapporti con Vivendi, azionista numero uno di Tim.

In rialzo invece Ubs +5%.La società ha comunicato di voler chiudere l’accordo di protezione statale dalle perdite derivanti dall’aggregazione con Credit Suisse, in marzo, lo stato della Svizzera aveva messo a disposizione fino a nove miliardi di franchi a copertura di eventuali danni economici derivanti dall’operazione.

Il BTP riparte da 4,17%. Bund a 2,62%. Euro a 1,093 (-0,2%).

Venerdì il dato sull’inflazione Ue

La data da cerchiare in rosso è venerdì, con il dato complessivo sull’inflazione nell’area euro comunicato da Eurostat mentre due giorni prima sarà la volta della seconda lettura del Pil nel trimestre.

In arrivo le minute della Fed, Walmart chiude le trimestrali

Anche i future di Wall Street sono in lieve ribasso. L’indice S&P500 ha chiuso la seduta di venerdì piatto, sulla parità il bilancio della settimana.

S’avvia alla chiusura la stagione delle trimestrali. Com’è tradizione, a chiudere saranno le società del largo consumo, da Home Depot a Walmart.

In sede di bilancio, il 78% delle società ha battuto le stime sugli utili, ma per i ricavi la percentuale scende al 61%. dei ricavi.

Lato banche centrali riflettori sui verbali dell’ultima riunione della Fed di luglio, attesi mercoledì, anche se gli ultimi dati sull’inflazione, cresciuta meno delle attese, potrebbero già avere superato le riflessioni di luglio, con gli addetti ai lavori che ritengono sempre più probabile una nuova tregua nel rialzo dei tassi da parte della banca centrale Usa nella riunione di settembre. Prima ancora ci sarà l’appuntamento di fine estate a Jackson Hole, tradizionale sede di incontro dei banchieri centrali.

In rosso il Giappone, Yen ancora giù

Sotto la pressione della crisi del mattone cinese le borse dell’Asia Pacifico iniziano la settimana di Ferragosto in ribasso. L’indice MSCI Asia Pacific scende sui minimi da giugno.

Nikkei di Tokyo -1,1%. Il cross tra yen e dollaro è poco mosso a 144,9. La valuta giapponese si è indebolita nelle ultime cinque sedute. Domani esce il dato sul Pil del secondo trimestre e venerdì quello sull’inflazione, questi due elementi dovrebbero chiarire quanto siano alte le possibilità di un cambiamento a breve della politica monetaria.

Kospi di Seul -1%. S&P ASX200 di Sidney -1%. BSE Sensex di Mumbai -0,6%.

Cina in rosso, in calo le vendite di auto. Biden: Pechino è una bomba ad orologeria

La Cina chiude la settimana in rosso, venerdì 11 agosto, l’Hang Seng perde lo 0,5% (-2% negli ultimi 5 giorni), Shanghai l’1,2% (-2,2% questa settimana) con i dato sulle vendite in calo delle automobili.  Sul sentiment dei mercati pesa anche l’ordine esecutivo degli Usa che limita in maniera importante gli investimenti statunitensi in tech e AI cinesi per motivi di sicurezza.

Il Nikkei, invece, sale venerdì dello 0,85%, deboli oro (-0,2% a 1.945 dollari l’oncia) e petrolio Wti americano (-0,2% a 82,6 dollari il barile) mentre i futures su Wall Street sono sopra la parità.

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Cina, vendite auto in calo dell’1,4% a luglio

Le vendite di veicoli in Cina sono diminuite dell’1,4% su base annua a 2,387 milioni a luglio 2023, dopo un aumento del 4,8% nel mese precedente, secondo i dati della China Association of Automobile Manufacturers (CAAM).

È stato il primo calo da gennaio, a causa di un confronto basso rispetto a luglio dello scorso anno, in concomitanza con la bassa stagione del mercato automobilistico. Nel frattempo, le vendite interne sono diminuite del 6,3% a 1,995 milioni, mentre le vendite all’esportazione sono aumentate del 35,1% a 0,392 milioni. Considerando il periodo gennaio-luglio, le vendite di automobili sono aumentate del 7,9% a 15,626 milioni.

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Country Garden, la caduta di degli dei

Country Garden, un tempo il maggiore gruppo immobiliare cinese per vendite, è diventata una penny stock a Hong Kong a causa dei crescenti problemi di liquidità.

Il titolo è sceso fino al 14,4%  venerdì a 0,89 dollari di Hong Kong (-6% circa alle ore 7:40 italiane), vicina a chiudere sotto 1 HKD per la prima volta in assoluto. Il gruppo crollato di circa il 70% rispetto al picco di gennaio, riducendo il suo valore di mercato a soli 3,3 miliardi di dollari dal massimo storico di circa 50 miliardi di dollari nel 2018. 

“Bomba a orologeria”

Il presidente Joe Biden ha definito i problemi economici della Cina una «bomba a orologeria» e ha definito i leader del Partito comunista «persone cattive», la sua ultima frecciata contro il governo del presidente Xi Jinping anche se la sua amministrazione cerca di migliorare i legami generali con Pechino.

Biden ha parlato giovedì a una raccolta fondi per la politica spiegando che la Cina è nei «guai» perché la sua crescita è rallentata e un «tasso di disoccupazione alto». I commenti di Biden sono alcune delle sue critiche più dirette al principale rivale geopolitico ed economico degli Stati Uniti.

Il ritorno di Alibaba

Alibaba è tornata a crescere in tutte le sue principali divisioni, sfidando la turbolenza economica della Cina per fare un primo passo verso un tanto atteso ritorno dopo oltre un anno di malessere.

Il leader dello shopping online cinese ha registrato un aumento dei ricavi del 14%, migliore delle attese, durante un trimestre in cui l’economia cinese ha faticato a prendere slancio dopo anni di restrizioni per il Covid.

Le sue azioni sono aumentate del 5,3% sulla notizia (+2,33% alle ore 7:40 sul listino di Hong Kong). Nel frattempo, il ceo Daniel Zhang ha affermato che Alibaba non è stata in grado di soddisfare totalmente la domanda di formazione sull’intelligenza artificiale da parte dei clienti a causa dei limiti di fornitura globale, suggerendo che una carenza di componenti critici come i chip AI sta pesando sul progetto di far crescere questa tecnologia all’avanguardia. (riproduzione riservata)

Bce in difficoltà, questa volta però la colpa è di Berlino

di Francesco Canepa

(Reuters) – Sono di nuovo tempi duri per la Banca centrale europea, il problema in questo caso però non viene dalla Grecia, dall’Italia o da uno dei soliti sospetti del Mediterraneo meridionale.

La Germania, prima economia della zona euro, soffre di una combinazione negativa di calo dell’avanzo commerciale con la Cina e debolezza dei settori manifattura e costruzioni – tradizionalmente principale traino del paese. Qualche dubbio esistenziale riguarda inoltre un modello economico basato sostanzialmente sulle importazioni di greggio russo a basso costo.

Le difficoltà dell’economia tedesca hanno naturalmente una ricaduta sulla zona euro nel suo insieme, rendendo lo scenario di recessione più probabile dell’ipotizzato ‘soft landing’ – l’obiettivo di moderazione di crescita e inflazione su cui la Bce contava e che Federal Reserve sarà invece probabilmente in grado di raggiungere.

Questo muta la prospettive per i tassi della zona euro: la possibilità di una pausa nel ciclo restrittivo più lungo della storia non è più un tabù ma viene apertamente evocata.

Il mercato monetario arriva anche a scommettere che un taglio dei tassi potrebbe avvenire prima delle attese, come alla fine del ciclo restrittivo del 2011 a causa della crisi del debito che ha travolto nell’ordine Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro, innescando la recessione..

“Ci sono alcuni aspetti simili alla crisi del 2011, quando lo shock dal lato dell’offerta ha determinato un rapido rientro dell’inflazione” spiega Richard Portes, professore di economia alla London Business School.

MALATO D’EUROPA, DI NUOVO

Ma l’epicentro del problema adesso non è un paese del cosiddetto Club Med e rende per alcuni commentatori nuovamente attuale l’etichetta di ‘malato d’Europa’ da assegnare alla Germania come nei primi anni Duemila.

L’espressione è stata coniata da Nicola I, zar di Russia, per definire l’impero ottomano nel XIX secolo.

Alcuni degli odierni problemi tedeschi hanno del resto origine proprio da Mosca, su cui Berlino contava per un terzo delle proprie necessità energetiche prima della crisi ucraina e della fiammata del greggio.

Altri punti deboli hanno radici ben più profonde e derivano da autonome scelte di politica economica come l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni, gli scarsi investimenti e la carenza di manodopera.

“Se il governo non prende provvedimenti incisivi la Germania resterà agli ultimi posti nella classifica della crescita in Europa” commenta l’analista Commerzbank Ralph Solveen.

Per lo meno una parte delle difficoltà dell’economia tedesca deriva tuttavia dalla politica monetaria restrittiva.

Utilizzando la leva dei tassi, la Banca centrale europea ha consapevolmente appesantito la crescita economica nel tentativo di far rientrare l’inflazione, arrivata alla doppia cifra rispetto all’obiettivo di 2% fissato da Francoforte.

L’aumento dei costi di finanziamento penalizza in particolare il settore manifatturiero, che dipende dagli investimenti, e in nessun paese europeo il comparto industriale conta tanto quanto in Germania.

“Tagliare i tassi perché l’economia tedesca è in difficoltà non sarebbe saggio, ma alzarli aggiungerebbe le pressioni macro a quelle micro che già affaticano l’economia” aggiunge Portes.

Questo costringe la Bce a considerare la prospettiva di mettere fine al ciclo delle strette monetarie prima che si evidenzino gli auspicati segnali di rientro dell’inflazione ‘core’.

Diventa così più complicato per Francoforte mantenere un esplicito legame tra inflazione ‘core’ e necessario rialzo dei tassi, come segnala il recente mutamento della ‘retorica’ che parla di tassi mantenuti elevati nel tempo, non di nuovi rialzi.

“Hanno sbagliato a porre troppo accento sull’inflazione ‘core’… il rischio è che si siano già sbilanciati” commenta Carsten Brzeski, responsabile per l’area macro globale a Ing Research.

Secondo Ricardo Reis, professore della London School of Economics, Francoforte deve cominciare a guardare alle attese di inflazione “in un arco di 12/18 mesi da adesso”, non al valore puntuale del costo della vita.

TASSI PIU’ ELEVATI PER PERIODO PIU’ PROLUNGATO

Il cambio dei toni Bce ha colto il mercato di sorpresa ed è avvenuto con l’ultimo consiglio di politica monetaria a fine luglio.

Christine Lagarde, che fino a giugno dichiarava che Francoforte “nemmeno si sognava” di interrompere il ciclo dei rialzi sui tassi, è arrivata a dichiarare che “al momento” non resta strada da fare nel percorso delle strette.

Pochi giorni dopo venivano pubblicati i dati Eurostat sull’inflazione di luglio, che mostravano il tasso ‘core’ stabile a 5,5% su base tendenziale, e la Bce sceglieva di mettere in evidenza il rientro di altre voci dell’indice generale.

Il consigliere esecutivo Fabio Panetta poneva poi l’accento sull’ipotesi di mantenere i tassi elevati più a lungo in luogo di varare nuovi rialzi.

Si profila quindi una pausa per il consiglio di settembre, probabilmente accompagnata da rassicurazioni che la Bce è pronta ad alzare i tassi se necessario e che la politica monetaria resterà per qualche tempo sufficientemente restrittiva.

Il mercato monetario scommette intanto su tagli significativi del costo del denaro nella seconda metà dell’anno prossimo.

“Prevediamo che non ci sia alcun rialzo da qui a fine anno e che da marzo prenderà il via un ciclo di tagli dei tassi” si legge nella nota a i clienti degli analisti Abn-Amro.

(Versione italiana Alessia Pé, editing Sabina Suzzi)

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