Come cambia il destino di Erdogan (e il nostro), dopo il terremoto

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan uscirà rafforzato o indebolito dalla tragedia del ? Nel 1999 la sua ascesa politica ebbe inizio proprio quando un altro sisma colpì la credibilità del leader turco di allora. Mancano tre mesi alle elezioni e il futuro di Erdogan ha un’enorme rilevanza per la Nato, visto il suo controverso protagonismo durante la guerra in Ucraina. La tragedia umanitaria della Turchia occupa la nostra attenzione, per adesso in primo piano c’è il tremendo bilancio delle vittime, la sofferenza dei sopravvissuti, la speranza di salvare ancora qualcuno tra le macerie, l’importanza di portare aiuti ai senzatetto assediati dal freddo e dal pericolo di epidemie. Ma è inevitabile spingere lo sguardo oltre, e porsi anche qualche domanda sulle conseguenze geopolitiche di questa calamità. La Turchia è un Paese importante per tutti noi, la sua posizione è diventata ancora più cruciale durante la guerra. È uno Stato membro della Nato che presidia il fianco sud-orientale dell’Alleanza con un vasto confine con la Russia. È l’unica vera potenza islamica dentro la Nato (la piccola Albania, membro assai più recente, ha una popolazione musulmana ma non subisce la stessa influenza religiosa nella sua politica). Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, Erdogan si è distinto per molte scelte controverse. Non applica le sanzioni contro Putin. Il confine russo-turco vede fiorire un mercato nero dove transitano anche merci occidentali soggette a embargo. Erdogan si è proposto più volte come mediatore, senza risultati concreti con l’unica parziale eccezione della trattativa sull’export di cereali: ma di sicuro è riuscito ad esaltare la propria visibilità internazionale. Infine Erodgan «tiene in ostaggio» l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato, esercitando il proprio diritto di veto. Ce l’ha soprattutto con la Svezia, prima per lo statuto di rifugiati concesso ad alcuni militanti curdi che Ankara considera terroristi; poi perché la Svezia ha «autorizzato» una manifestazione di piazza in cui un politico danese di estrema destra ha bruciato una copia del Corano. Ce n’è abbastanza per capire che il futuro politico di Erdogan non interessa solo la popolazione turca. In teoria questo futuro verrà deciso dagli elettori turchi . Questo ci ricorda che Erdogan, anche se talvolta viene inserito frettolosamente nella lista degli «autocrati», è pur sempre il presidente eletto di una democrazia dove il popolo sovrano può cacciarlo. È una democrazia presidenziale, che si può catalogare come «illiberale» o viziata da tendenze autoritarie, perché negli ultimi anni Erdogan ha aumentato i propri poteri, ha ridotto le garanzie dello Stato di diritto, ha colpito la libertà di stampa, si è appoggiato pericolosamente agli ambienti religiosi fondamentalisti. Ora il timore dell’opposizione è che lui abbia dichiarato lo stato di emergenza non solo per la mobilitazione post-sisma ma forse anche per rinviare le elezioni o forse per avere poteri speciali da usare contro gli altri candidati negli ultimi mesi di campagna. Dalla sua ultima vittoria all’elezione presidenziale, nel 2018, Erdogan ha subito dei rovesci: il suo partito ha perso le amministrazioni municipali delle due capitali economica e politica, Istanbul ed Ankara. Che impatto avrà la tragedia umanitaria di questi giorni? Il terremoto del 1999, con epicentro a Izmit, fece 17.000 morti e lasciò mezzo milione di persone senza abitazione. La risposta del governo fu criticata per la sua inefficienza e il disastro colpì il primo ministro di allora, Bulent Ecevit. La Turchia non avendo ancora adottato un sistema presidenziale, il presidente di allora Suleyman Demirel non aveva gli stessi poteri esecutivi che oggi ha Erdogan: quest’ultimo invece ha subito assunto la guida delle operazioni inviando una forza di 55.000 soccorritori e 5.000 tra medici e infermieri. Erdogan è quindi esposto in prima persona. A parte il precedente turco del 1999, i terremoti hanno un impatto politico durevole? Piccola notazione personale: all’inizio della mia carriera giornalistica, quando scrivevo per il settimanale del Pci Rinascita, in uno dei miei primi incarichi fui inviato in Irpinia dopo il sisma del 1980. Ricordo l’impatto che ebbe la visita dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che ascoltò le lamentele dei superstiti e denunciò i gravi ritardi nelle operazioni di soccorso. La conseguenza più rilevante fu che dopo l’Irpinia si mise in moto un processo che – con ben 12 anni di ritardo – portò alla nascita della Protezione civile nel 1992. Per il resto tanti terremoti successivi hanno sempre colto l’Italia impreparata, per esempio nel rispetto delle normative anti-sismiche per gli edifici. Polemiche simili stanno già nascendo in Turchia. Per passare a un sisma avvenuto sotto un regime autoritario, Bret Stephens sul New York Times sostiene che quello del 19 settembre 1985 in Messico diede vita a proteste e movimenti della società civile che portarono alla democratizzazione del paese. Anche in quel caso sotto accusa era la «componente umana» dietro i danni del terremoto: la qualità scadente degli edifici, in violazione delle stesse norme vigenti, spesso a causa della corruzione. Un altro ricordo personale è quello del 12 maggio 2008 nel Sichuan che fece 69.000 morti. Ero ancora corrispondente in Cina, e per pura coincidenza mi trovavo proprio in quella provincia (i miei figli adottivi sono del Sichuan). Ci furono – nei limiti in cui la censura lo consentiva – critiche e proteste per l’impreparazione delle autorità. Ci fu anche la nascita di un vasto movimento di volontariato, spontanea espressione della società civile, che alcuni occidentali vollero interpretare come una sfida al partito comunista cinese. La ricostruzione del Sichuan fu poi segnata da gravi episodi di corruzione, che forse contribuirono all’ascesa di Xi Jinping al potere (2012), segnata dalle campagne anti-corruzione. Ma definire un preciso impatto politico di quel terremoto mi sembra arduo. Voglio ricordare a questo proposito che la tradizione cinese sul «mandato celeste dell’imperatore», per cui le calamità naturali vengono interpretate come un segno che il leader ha perso legittimità, non sembra applicarsi automaticamente alla nomenclatura comunista: altrimenti la pandemia avrebbe fatto vacillare Xi Jinping. In generale è difficile misurare le conseguenze politiche delle calamità naturali. Nei regimi autoritari, talvolta i leader possono perdere prestigio in conseguenza di errori e inefficienze. Quasi nessuno arriva veramente «preparato» a un terremoto, neppure nei sistemi democratici: forse solo il Giappone ha avuto la capacità di minimizzare danni e vittime in modo esemplare? D’altra parte gli autocrati possono usare le sciagure per rafforzare ulteriormente il controllo sull’informazione, sull’ordine pubblico, ecc. Può darsi che per la popolarità di Erdogan nel medio-lungo pesino di più le difficoltà economiche che colpiscono l’intera Turchia, come inflazione e svalutazione, solo in parte attutite dall’afflusso di capitali russi. Una notazione storica sulle conseguenze geopolitiche: il terremoto del 1999 ebbe effettivamente un impatto in politica estera, perché la Grecia inviò aiuti umanitari e questo contribuì al disgelo tra Atene e Ankara dopo una lunga ostilità. Di sicuro Erdogan sta tenendo un dettagliato elenco su qualità quantità e provenienza degli aiuti dall’estero.